A volte ritornano: amarcord e fotografie segnanti
La non rubrica “A volte ritornano” ricompare e la tocca piano: amarcord e fotografie segnanti.
In questa quarantena obbligata ci tocca di tutto: la spesa, le serate in famiglia davanti alla tv, il continuo via vai tra un fornello e l’altro, l’ora d’aria in cortile, Radio Italia anni ’60, ed ebbe sì, anche amarcord e fotografie segnanti.
A volte ritornano
Il riordino di cassetti, armadi, scrivanie, librerie e quant’altro, è un must, ed è una di quelle cose che si rimanda per mesi e mesi (nel mio caso per secoli e secoli) ma che più puntuale dei brufoli dopo mezza fetta di salame, prima o poi spunta.
E quando spunta, anche solo all’orizzonte, è un disagio. Non sai se perderti nella quantità di fotografie (per la maggior parte inutili), negli amarcord che svariano da portachiavi di ogni forma e colore ad oggetti non meglio identificati, a post-it di appunti poco decifrabili scrigno dei segreti più impensabili come la ricetta segreta della pasta frolla di tua nonna morta nel 1992.
Ed è inutile che mi nasconda, perché nonostante io dopo 15 giorni di quarantena non ci abbia minimamente pensato a mettere un po’ d’ordine in nessun angolo della casa, ci ha pensato mia madre a smantellare cassetti e montagne di scartoffie. E così vi racconto brevemente i passaggi salienti del mio smart working degli ultimi giorni. Premesso che la mia quarantena ha una certa similitudine con la proprietà commutativa dell’addizione, e cioè che in qualunque stanza della casa io mi metta (cortile, garage, ripostiglio compresi) il risultato non cambia, ho ceduto in fretta alla tentazione del soggiorno quanto meno per osservare il via vai di mia madre e mio padre che mi danno una parvenza di solitudine molto limitata.
E così già l’associazione smart working in soggiorno con i profumi della cucina dietro l’angolo non regge, ma immaginatevi pure la musica in sottofondo e una montagna di scartoffie sul tavolo di 157 centimetri. Ah, dimenticavo, che musica: Radio Italia anni ’60 per di più “con l’interferenza”, convertita, con immensa fatica, in Radio Italia. Prossimo passo RDS, per radio Deejay ci sentiamo a fine aprile, stesso posto stessa ora (e dove vogliamo andare).
Amarcord e fotografie segnanti
Ma veniamo al bello, al dunque, al sodo. Mentre mia madre inizia la divisione dei pani e dei pesci, mettendo da una parte le sorprese da uovo di Pasqua e sorprese da ovetto Kinder e dall’altra foto e racconti, (ed in terza piazza il sacchetto della spazzatura per gli scarti), io continuo il mio lavoro. Il tempo di concentrazione massimo è di 27 secondi. Ogni brandello di foglio di carta passa sotto la mia supervisione (in maniera forzata sia chiaro) accompagnato dalle seguenti domande (in questo rigoroso ordine)?
– È tuo? Ne sei sicura? Cosa c’è scritto? Sei tu in questa foto? Ah no è tuo fratello (e dovrei già chiuderla qui)…mamma mia come ero giovane…come passa il tempo…ma qui dove eravamo? Forse al mare…ma secondo te era la comunione o lo cresima del mio procurino di novantaduesimo grado? Ma dici che può servire? (La mia risposta è sempre un no categorico, e nonostante ciò…) Cosa dici lo butto?
Nel frattempo Radio Italia non aiuta e il mio smart working pare una delle dodici fatiche di Ercole. Ma ad un certo punto alzo i toni: “Mamma scusa starei lavorando! (Con tanto di uso del condizionale per sembrare meno insensibile del solito) Devi per forza farmi il quiz adesso? Alla risposta “Ah si scusa non parlo più” credo ancor meno di quanto credessi alle cazzate dei miei ex ma provo a metterci della pazienza e vado avanti.
Non faccio in tempo a produrre altre due righe, ben due righe, che il disco ricomincia. Si parte con un più soft “Ma che bella questa canzone” e si arriva ad un “Secondo te chi ce l’aveva spedita questa cartolina?” (Sì, ci sono anche le cartoline) per poi raggiungere l’apice con “Dai fai una foto (della foto s’intende) e mandala a tuo fratello“, ed io scema che la faccio pure e la invio innescando una discussione a distanza senza precedenti e su whatsapp. Ma non crediate che non ci sia di peggio.
Ricordi, non amarcord, Ricordi
L’ennesimo “Sto lavorando“, (si è passati all’uso dell’imperativo) non sortisce alcun effetto. Ma manco per sbaglio. La rinuncia allo smart working è lì ad un passo ma provo a tenere duro. Finché lo sguardo, ahimè, non cade sull’orripilante caschetto con frangetta che per anni è stata la tua acconciatura di punta (e non ridete perché tutti abbiamo avuto il caschetto nella nostra vita senza distinzioni di sesso).
A quel punto la rabbia che dal terzo anno di asilo si è accomodata nel salotto della tua mente, ma che non ha mai avuto lo slancio per alzare le chiappe dal divano, trova la forza per esporre un banalissimo e doveroso perché, ripetuto in sequenza come se fosse in loop. Perché, perché, perché…“Perché era di moda, perché ce l’avevano tutti…”. Ecco appunto il fatto che ce l’avessero tutti e che facesse schifo su tutti, qualche dubbio non lo ha mai fatto sorgere?
E tralasciamo poi il capitolo, vestiti, trucco, scarpe, pose da sfigata cronica, ricorrenze serrate che facevano della costanza il loro segno distintivo, ma anche i televisori da 188 kg che comparivano alle spalle di me medesima bambina di 7 anni alle prese con finestrelle al posto dei denti e con regali che davano già ai tempi profondi segnali sulla stupidità umana. No perché ditemi voi se oltre tua madre a vestirti da deficiente, ci dovesse essere anche lo zampino di zie, nonne, cugine e compagne di classe che guardo caso, il regalo era sempre quello “O una bella maglietta” o “Il diario con il lucchetto”. Ne avrò ancora in giro una dozzina. E se i regali non erano questi, erano tutte la cianfrusaglie ancora oggi nel cassetto a casaccio.
Ad ogni modo, 2,5 ore dopo il risultato è il seguente: canzoni ascoltabili di Radio Italia una, frutto del lavoro del tuo smart working tre righe, scartoffie accumulate nel cestino dell’immondizia ZERO perché “No, no questo non possiamo buttarlo può servire” o “no, no questo è un ricordo, non lo si può buttare“. Non sia mai eh.
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