È il minuto 83 di Milan – Fiorentina, Francesco Camarda si sfila la casacca, Pioli ha scelto lui. 15 anni, 8 mesi e 15 giorni e questa sera se la ricorderà per sempre, perchè è la sera dei sogni, è la sera dell’esordio in serie A, è la sera in cui ti guardi intorno e non ci credi.

Francesco Camarda non lo sa che da stasera potrebbe cambiare tutto o potrebbe non cambiare niente, ma è certo che il destino, la sua caparbietà, il suo talento, il suo percorso, la sua grinta, la sua passione, la sua fortuna, lo hanno vestito di un record che rimarrà nel tempo.

In google è già uno dei nomi più ricercati, si è sentito addosso il peso di 80 mila occhi, domani i giornali metteranno il suo viso fanciullesco in prima pagina, e pigieranno il piede sull’acceleratore dei paragoni, dei commenti, del “Può diventare più forte di…”.

Io non ho cercato nulla, non faccio la tuttologa e non voglio sapere altro. Da amante del calcio vorrei che la sua storia me la raccontasse lui. Con le manciate di minuti che il Milan gli concederà da qui a fine stagione, con le giocate di un ragazzino sbarazzino, con i gol, perché no, con l’entusiasmo di un 15enne coraggioso con un sogno grande quanto San Siro che somiglia tanto al tema di 5ª elementare, quando la maestra ti chiedeva: “Cosa vuoi fare da grande?”.

Il calciatore. Francesco Camarda vuole solo fare il calciatore. Con la maglia del Milan, quella dell’Italia, con una qualsiasi altra maglia, a San Siro come al Bernabeu, al Tardini come nel campetto sotto casa. Non c’è alcuna differenza.

Lasciatelo sognare, lasciatelo sognare in pace.

Foto Twitter

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Tanti di voi non capiranno e forse è anche giusto così, ma a me basta sentire Rama di Pomm o Palio, in gerco comune, per ricoprire le mie pupille di un luccichio poco comune, o vedere le mie gote salire verso l’alto assecondando un sorriso.

La storia della Rama di Pomm potete leggerla QUI, io voglio parlarvi della mia Rama di Pomm.
Era il 1976, mamma e papà si erano sposati da poco e stavano finendo il trasloco, suonano alla porta, un signore, il buon Mario, dice: “Tra qualche settimana qui si farà il palio, ti va di partecipare?”. Ecco, è nato tutto da lì e papy me l’ha sempre raccontata in questo modo. Lui che è nato per tuffarsi di testa in qualsiasi cosa, lui che aveva sempre l’entusiasmo contagioso, la voglia di fare, un’energia per mille, lui che da quel giorno ha deciso di cucirsi addosso il blu del suo rione e farne una questione che andava forse oltre la logica, ma che sapeva emozionare all’inverosimile.

Per me novembre è sempre stato il mese del Palio, ma in realtà tutto l’anno gli ruotava intorno. Il conto alla rovescia partiva da lontanissimo. Magari a marzo incontravi qualcuno per il quartiere che potesse essere utile per un gioco, gli chiedevi in che via abitasse, e poi gli lanciavi un appuntamento “Tieniti pronto che ti chiamo”, e lo chiamavi per davvero ed ogni sì era quasi un sì per la vita perché, una volta entrato, non ne uscivi più.

La Rama di Pomm esiste da 75 lunghissimi anni, ha vacillato in più di un’occasione, ha vissuto le epoche degli inverni rigidi, delle contrade che si scontravano aspramente, l’epoca d un quartiere che si è rivoluzionato, di generazioni che sono cambiate e non hanno capito, non l’hanno amata come meritava, ha vissuto le epoche del covid, rimanendo ferma a guardare il tempo che passava e le soluzioni che sembravano scivolare via in lontananza, sbiadite fra un dubbio ed una legge che metteva solo i bastoni fra le ruote. Ed invece…75 anni dopo, è ancora qui. Siamo ancora qui. Con qualche modifica al regolamento che dà chance agli ex residenti di poterne fare parte, o che permette, per dirla tutta, a questa festa di essere coccolata ancora un po’ da chi l’ha amata veramente e non riuscirà mai a farne a meno.

E siamo ancora qui con orgoglio, dedizione, passione, con il tempo che manca ed un puzzle di infiniti pezzi sempre più piccoli e sempre più difficili da incastrare. La terza domenica di novembre, dopo una settimana di battaglia, dopo il calcio andato in scena a settembre, si spalanca persino il cielo, c’è un sole che fa invidia a quello del mese di giugno, c’è un quartiere che si anima, ci sono il blu, il giallo, il rosso ed il verde che predominano su quella strada che anche quest’anno non ne ha voluto sapere di contare quattro abitanti appena, ha preferito accerchiarsi di migliaia di persone, di bambini sognanti, e di 4 asinelli così buffi che sembra quasi impossibile diano un senso a tutto…ed invece.

E poi fra le tante gare c’è il tiro alla fune, specialità della casa. Papy ne ha vinti tanti, tantissimi, la maggior parte per dirla tutta, si appendeva a quella corta, la stringeva forte, urlava, sbraitava, si arrabbiava, si commuoveva e poi rideva…mentre tiravo, quest’anno, mi sono resa conto che sono 20 anni che anche io sto lì, attaccata a quella fune, con le scarpette che non scivolano e due piedi impuntati al meglio per provare a trascinare la mia squadra, anche se ultimamente ci sono riuscita poco. Però mi sono goduta il momento, un milione di voci intorno, quel tiraaaaa che ti smuove dentro, gli occhioni puntati addosso anche di quell’amico delle elementari che non vedi, forse, proprio dai tempi di uno zaino in spalla e del “vediamo chi arriva ultimo”.

La Rama di Pomm è un ritrovo dove il passato si scontra con il presente, dove alzi gli occhi al cielo e sai di avere (i migliori) spettatori anche lì, dove torni a casa con il profumo di frittella addosso, dove scorri le foto della mostra e ti commuovi, dove la serata delle premiazioni è “faccio la torta e ce la mangiamo insieme”.

Ed ogni anno, a prescindere dal risultato, la chiudi sempre alla stessa modo, concedendoti la più grande delle bugie: “Questa è l’ultima, giuro che è l’ultima”.

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I capelli color rosa, olilla, o azzurri, hanno solo dato colore ad un talento che di per sé le sfumature le conosceva già tutte, perché quel talento cucito addosso a Megan Rapinoe ha immerso il volto in un arcobaleno.

Il giallo delle giornate migliori, il rosso delle sfide trionfanti, il blu scuro quando sarebbe bastato tanto così per acciuffare quello che mancava all’appello, il nero per un tendine che ha fatto male troppo presto, in quell’ultima danza che sarebbe dovuta essere un lento così simile al ballo della 5ª liceo piuttosto che al suono di un pianoforte scordato.

Ma sfogliare lo spartito dall’inizio significa ripercorrere una carriera senza eguali che fa di Megan Rapinoe la direttrice d’orchestra perfetta ma anche una delle più grandi calciatrici di tutti i tempi. La bacheca brilla di un oro olimpico conquistato l’11 agosto 2012, a Londra, con il Giappone, rivale di sempre, e di due Mondiali vinti da protagonista assoluta, nel 2015 in Canada quando divise la scena con Carli Lloyd e Alex Morgan, battendo in finale, guarda un po’, il Giappone per 5-2, e nel 2019 in Francia, quando i gol furono tanti di cui uno, decisivo, nell’ultimo atto, dove con la sua nazionale a stelle e strisce ebbe la meglio sui Paesi Bassi per 2-0.

Ma sfogliando ancora, i colori balzano agli occhi e la musica si fa più forte: è il 2 dicembre 2019, per la seconda volta nella sua storia il Pallone d’Oro finisce anche nelle mani di una calciatrice, e quella calciatrice è proprio lei, Megan Rapinoe. A 34 anni è la più forte di tutte.

Le note stonate di una melodia dolcissima sono il non essere mai riuscita a vincere una finale di National Women’s Soccer League, stregata fino all’ultimo visto che anche lo scorso sabato, in quello che è stato l’ultimo atto dell’atleta 38enne, a vincere è stato il NY Gotham FC di New York per 2-1 proprio a scapito dell’OL Reign di Seattle. Ma l’ingiustizia totalizzante l’ha consumata il terzo minuto quando quel tendine d’achille faceva troppo male e l’unica via di fuga dal dolore era la strada che conduceva alla panchina, troppo breve per rivivere tutto quello che è stato ma lunga abbastanza per godersi il tributo di una standing ovation da pelle d’oca, condita dall’abbraccio dell’altra capitana, sua compagna di nazionale, Ali Krieger.

E così, mentre una mano asciugava le lacrime e l’altra ringraziava un pubblico che è sempre stato dalla sua parte, negli occhi di chi si è goduto ogni scena di una mirabolante carriera fatta anche di giocate di gran classe al di fuori del terreno di gioco, come la campagna di sensibilizzazione per una parità salariale tra uomini e donne, nei pugni stretti perchè “non doveva finire così”, c’è ancora spazio per i ricordi, per quell’esultanza a braccia aperte dopo ogni gol che forse, fino ad oggi, ha sempre significato “Eccomi qua, ci sono anche io“, ma che da domani andrà verso un messaggio più profondo, come a dire Lo spettacolo è finito, grazie di tutto mio caro football” nell’eco di un’unica risposta “Grazie a te, Megan Rapinoe, campionessa senza tempo di un calcio travolgente come il più grande degli amori corrisposti”.

foto Megan Rapinoe Getty Images 

Se io dico Roberto Baggio si alzano tutti in piedi. Poi ricordano, si commuovono, sognano ad occhi aperti, si mettono una mano sul cuore e sanno che Baggio è lì e da nessun altra parte. Uno così lo si può solo amare, né troppo e né troppo poco. Lo ami per tutto quello che ha fatto, per aver rappresentato le big del calcio italiano e le squadre di province allo stesso modo, sempre con quel sorriso, con l’eleganza, con le giocate che non ti aspetti, troppo naturali per poterle prevedere, troppo immediate per provare a goderti l’attesa del “vediamo come va”, con Baggio sapevi già come andava.
Il divin codino vinceva anche quando perdeva, la gente correva allo stadio e pendeva dal suo destro prelibato, si stropicciava gli occhi, indossava con orgoglio la maglia “Baggio 10” (o 18 per i palati fini) e ne faceva quasi una seconda pelle, talvolta a prescindere dai colori.
Ma se Roberto Baggio fosse stato “solo” il migliore nel rettangolo di gioco, probabilmente oggi la gente avrebbe ricordi sbiaditi di gol capolavoro e trofei sollevati al cielo, ed invece la timidezza, la semplicità, la lealtà con cui ha affrontato tutto ciò che c’era intorno, ne fa di lui un campionissimo senza eguali e ricordarsi i dettagli, il profumo di una giocata, l’estro che tirava fuori dal cilindro al 5′ o al 95′, è ciò che di più naturale scaturisce in quel tifoso anche romantico che sa bene che “Come Baggio non ne nascono più”.
Al Festival dello Sport di Trento a Roberto Baggio spetta l’inaugurazione, è lui a dare il là al Circus di campioni che passeggiano in piazza Duomo e si sbizzarriscono tra il Teatro Sociale e l’Auditorium Santa Chiara, e Baggio il là lo dà esattamente come solo lui sa fare, con garbo e gli occhi che brillano.
Gli basta parlare di calcio, raccontare la sua vita spesa dietro quel pallone e citare un milione di volte la passione senza mai essere ridondante o banale.

Ho giocato con una passione infinita, se non mi fossi allenato duramente non avrei fatto quello che ho fatto, non ci sono muri invalicabili per la passione,
niente arriva per caso ci vuole la perseveranza e chi non parla di lavoro dice bugie
“.

“Qualunque professione se non c’è impegno siamo vuoti, la grandezza di una persona si misura dalla voglia che ha di sfidarsi”.

“Ovunque andavo giocavo per far felici i miei tifosi, il mio unico scopo è sempre stato quello di far divertire la gente”.

“Non invidio nessuno solo chi gioca a calcio, darei qualunque cosa per giocare ancora”.

“È fondamentale il percorso che ognuno di noi fa, la sconfitta va accettata. Se io l’accettavo? In realtà quando giocavo non avevo mai l’idea di poter perdere”.

“Il calcio mi ha insegnato a non mollare mai”.

“Se non passiamo attraverso la sofferenza, non possiamo creare qualcosa di infinito valore”.

Il punto è, caro Roberto Baggio, che quando tu avevi il pallone nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo, eppure eravamo tutti emozionati.

È il Festival della Grande Bellezza e la grande bellezza non può non far rima con Roberto Baggio.

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foto Alessandro Gennari


Ma a voi cosa vi frega esattamente? Tipo, vi frega la pizza il sabato sera anche quando siete a dieta? Vi fregano le giornate primaverili piuttosto che “Divano, piumone e serie tv?” Vi frega il sorriso di un bambino, un cane che scodinzola o, che ne so, lo shopping sfrenato?

E i tramonti vi fregano? E la neve che riveste tutto di bianco? E le patatine fritte? Dio quanto mi fregano le patatine fritte, ne mangerei a quintali. E poi magari vi frega il venerdì sera, il vostro capo che vi implora di un ultimo favore, i film alle due di notte, l’inno di Mameli prima di una partita dell’Italia, l’ultimo singolo di Ligabue ed il lunedì mattina, quello poi mi frega sempre mannaggia a lui.

Ecco, personalmente potrei dire che tutte queste cose mi fregano un po’, ma che non c’è niente al mondo che mi freghi come il nodo allo stomaco. Mi incastra sempre, nel bene e nel male.
Tipo ieri sera, mentre facevo il borsone per andare al campo al primo allenamento dell’anno, qualcosa come sedici stagioni dopo, quel maledetto nodo allo stomaco era lì, ancora una volta, come a dirmi che giusto o non giusto stavo facendo ciò che sentivo, che non c’era età, stanchezza, voglia, dolore alla gamba, lavoro in arretrato che tenesse.

E il nodo allo stomaco in amore? Ne vogliamo parlare? Tanti dicono “Fa ciò che ti dice il cuore”, altri t’implorano di ascoltare la mente, quelli bravi riescono a persino a mixare le due cose, ma io, che sono io e nessun altro al mondo, mi aggrappo sempre e solo al nodo allo stomaco. Posso mettere da parte l’orgoglio o usarlo come corazza indistruttibile, posso ripetere giorno e notte che non me ne frega nulla, che bisogna guardare avanti, che quello che è stato è stato ma alla fine…sbam. C’è il nodo allo stomaco e tutto cambia. E come ve lo spiego?

È un’emozione che si attorciglia e s’aggrappa, che ti succhia linfa vitale, che ti fa mordere le labbra, brillare gli occhi, dire frasi stupide e talvolta regalare ai più sconosciuti passanti una lunga collezione di espressioni da ebete che se solo i content creator di meme ti vedessero, ci metterebbero dodici secondi esatti per trasformarti in un meme vivente. Ma il peggio è quando provi pure a scioglierlo quel nodo allo stomaco incurante del fatto che tirare i capi della corda in maniera sbagliata, lo renda ancora più indissolubile, e, come se avesse un volto ed un sorriso, è capace di sogghignarti in faccia con aria di sfida e la consapevolezza di averti fregato di nuovo.

Ed è così che mi rendo conto che alla fine sarà pur vero che il cuore batta forte, che le gambe tremino, che le emozioni mi taglino il respiro, ma è quello stra maledetto nodo allo stomaco che scombussola il mio libero arbitrio, lo fa suo, lo shakera con le sensazioni, lo incastra lì e se lo tiene stretto, non me ne restituisce nemmeno un pezzetto, né quando faccio il borsone, né quando m’incanto di fronte ad un tramonto lontano da casa, né quando mi ritrovo a fare i conti con occhi così belli e così sbagliati. E tutto ciò che vivo lo classifico inserendolo nella colonnina “Nodo allo stomaco sì o nodo allo stomaco no”, non conosco altro metro di giudizio.

E quando tiro la riga e faccio i conti so già fino a che punto sono fregata, anzi, talvolta, maledettamente fottuta.

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Esiste per tutti il giorno Zero, è un momento in cui non si vince, non si perde, ma si riparte. Ci si allontana dalle persone che diventano ricordi, da quelle che non restano, da quelle che in fondo non ci sono mai state. Si chiama giorno zero perché quello che segue lo zero è sempre un inizio e negli inizi non si conosce la sconfitta”.

Qualche mese fa Ambra Angiolini raccontava così il suo stato d’animo dopo la fine della relazione con Massimiliano Allegri. Balzò agli onori della cronaca per la lucidità nell’affrontare quello che indubbiamente era un dolore suo e totalmente inspiegabile. Pose un punto, definitivo, e voltò pagina, magari con una biro scarica tra le mani e le idee troppo confuse, eppure non ebbe paura di farlo. Al di là di colpe e giudizi, la fine di una relazione, la fine di un amore, è una rottura con un pezzo di vita che è stato e che forse “mai sarà più”, almeno non in quel modo. Le cose cambiano e non resta che prenderne atto anche e soprattutto di fronte all’impossibilità di poter fare qualcosa di diverso.

Ora mi chiedevo: e se il 1° settembre fosse il nuovo “giorno zero?” Si sa, agosto va in cantina e porta con sé la salsedine di una vacanza al mare, la frescura delle passeggiate in montagna, un’amicizia condivisa di fronte ad un tramonto, il rossore sulle guance per un nuovo amore sbocciato e magari già finito, la leggerezza delle notti d’estate che ti tocca aspettare altri trecento giorni per ritrovarla,…; agosto ripone le valigie nello scaffale e lascia che a prendersene cura siano buio e polvere, in attesa di riportarle alla luce e dar loro nuova direzione, fra gli scompartimenti di treni veloci, di stive di aerei o striminziti bagagliai di auto colmi più di entusiasmo che di vestiti.

E mentre l’animo sembra aver trovato un po’ di pace e le menti hanno la linfa dei giorni migliori, ecco che all’orizzonte si fanno strada i nuovi progetti, camminano verso di noi pronti a prenderci per mano e a condurci verso l’esplorazione di angoli di un mondo sempre troppo grande e affascinante per chi ha occhi curiosi e cuori impavidi. Che poi anche qui non sempre le cose vanno come da pronostico, anzi per la maggior parte i pronostici vengono sovvertiti, i sogni sbiadiscono ed i progetti vanno a puttane, ma è tentare che fa la differenza, credere che di fronte ad una piscina vuota basti una spinta un po’ più forte su quel trampolino che scricchiola per avere anche solo la sensazione di volare alto, di respirare un’aria nuova, senza lasciarsi domare dalla paura di un atterraggio burrascoso o dall’invidia di un paracadute che fa ombra ad altre schiene.

E allora me lo sono chiesta e richiesta e continuo a sentirlo rimbalzare nella mia mente come la pallina di flipper impazzito che le tenta tutte pur di non cadere: e se questo 1° settembre fosse il giorno zero? In fondo dovrei sapere che forma ha, qualche giorno zero l’ho collezionato anche io, e poi non c’è mai limite ai giorni così nella vita di una persona, non saprai mai quanti te ne capiteranno, ma saprai sempre quanti deciderai di farne capitare tu perché mettere un punto, chiudere una porta, cambiare strada è un catino pieno di lacrime che fa a gara con una nuova opportunità, e le nuove opportunità ciò che sanno fare meglio è sguazzare in mari agitati e rimanere a galla.

Ed è questo il nocciolo: dopo il giorno zero non ci sarà nessun nuovo amore che ti guarderà con occhi diversi, non ci sarà quell’amico che ritorna, non ci sarà il lavoro dei tuoi sogni che bussa alla porta di casa, ci sarà “solo” la volontà di nuotare per spingerti là dove non sei mai stato. E allora “Zitto e nuota” per dirla come uno dei miei cartoni animati preferiti…tu nuota, che non si sa mai cosa ti succede, che poi metti che la vita ti sorprende, devi farti trovare pronto.

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“Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blu, poi d’improvviso venivo dal vento rapito, e incominciavo a volare nel ciel infinito…”: vale scomodare Modugno per raccontare Gimbo Tamberi?

Vale, vale tutto oggi. Vorrei raccontarvi una cosa per spiegare Gimbo Tamberi dopo l’ennesima impresa di una carriera che è storia.
Agosto 2018: io, la mia follia, la mia fame di raccontare lo sport, ed un caro amico fotografo, saltiamo su un aereo con rotta verso Berlino, ci sono gli Europei di Atletica. Il day 6 di quella spedizione conta la finale di salto in alto maschile. C’è Tamberi in ripresa dopo il brutto infortunio patito alla vigilia di Rio, vediamo che combina. Sarà tornato quello del 2.39 record italiano?

La gara è un misto di emozioni, Gimbo lotta, eccome, la medaglia è alla portata, c’è la “cazzimma”, ma manca la brillantezza, 2.33 diventa l’Everest e a vincere è il padrone di casa, Przybylko, con 2.35. Io li sento i commenti attorno, “Non è più quello di prima”, “Non tornerà ad essere il Gimbo Tamberi che ci ha fatto sperare per un futuro top dell’atletica”, “Mi sa che ormai ce lo siamo giocati”, “Dovrebbe fare qualche sceneggiata in meno e lavorare di più”, eppure io avevo visto altro. Avevo visto un talento sotto le macerie, avevo visto il carattere di chi non conosce la parola arrendersi, la disperazione per un mancato podio, l’amore per uno sport che è sempre stato di più di una passione e di un’ossessione, saltare non era questione di vita o di morte, era di più, molto di più.

E poi ho visto gli occhi, gli angoli della bocca piegati all’in giù, le mani che gesticolano, ed un “fanculo” mega galattico che lampeggiava sulla fronte. In mixed zone c’era un Tamberi che mi raccontava le sensazioni, con i conti in sospeso in una mano e la voglia di spaccare il mondo nell’altra. “Ci sei Gimbo, la strada è “solo” lunga, ma è quella giusta, devi spostare ad una ad una le macerie che ti hanno investito, poi troverai la luce”. Mi ringraziasti, un sorriso amaro, forse un po’ per farmi contenta, e andasti via.

Quello sguardo sbarazzino e velato di malinconia mi restò dentro, ed oggi, ogni volta che ti vedo prenderti a schiaffi all’inizio di una rincorsa pennellata come in un quadro di Giotto, penso all’Everest che hai scalato a mani nude e alla luce che ti avvolge là, in cima, al cospetto di un mondo che ha capito, ha applaudito e si è inchinato.

L’Italia intera ti ringrazia perché l’atletica italiana ha trovato in te, “un capitano, c’è solo un capitano”, ma questo non basta, bisogna andare oltre, oltre le vittorie, oltre le medaglie d’oro, oltre quell’Inno che ogni volta è lacrime e pelle d’oca, perchè è solo oltre che scopri l’uomo, l’esempio, la gratitudine.

Ti siamo grati Gimbo Tamberi, ti sono grata: io l’atletica l’ho sempre amata profondamente, ma tu mi hai preso per mano e mi hai portato con te ad esplorare la luna, le stelle, il sole, hai spalancato una porta su un angolo di cielo di cui non conoscevo forma, né tanto meno esistenza. È l’angolo dei sogni che diventano realtà, delle leggende, di un libro bianco ed una penna, ma tu non ti sei limitato a scrivere la storia è la storia che ha scritto di te perché oggi la storia sei tu.

Resterai nell’Olimpo delle leggende italiane per sempre, ma sempre sempre sempre, con indosso un abito che nessuno è riuscito ad indossare in maniera così impeccabile, è l’abito del “Nothing is Impossible”, e dopo questa ennesima notte di magia ha definitivamente un altro senso…l’impossibile che diventa possibile sei tu.

Con il cuore in mano, ti dico grazie Gimbo Tamberi, infinitamente grazie.

foto Fidal

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È di nuovo serie A, suona la campanella e si torna sui divani, telecomando in mano e la testa che abbandona ogni pensiero per quei novanta minuti di magia.
È stata un’estate strana questa per il calcio italiano, dove ci si è affezionati alle under della Nazionale azzurra riuscendo a trionfare “solo” con i 19enni del ct Bollini, dove si è pianto alle immagini di Girelli & co con le mani in faccia, fuori troppo in fretta da un Mondiale che sapeva tanto di occasione per spalancare una finestra nel mondo, dove si è seguita la querelle Mancini – Italia – Gravina, come la più disarmante puntata di Beautiful in cui tutti stanno con tutti e con nessuno.

E magari fosse tutto qui, ci ha pensato il “calcio d’Arabia” a calare un paio di assi ricoperti d’oro, stravolgendo le aspettative di chi sognava un Milinkovic Savic alla Juventus o un Demiral da prendere a 3 crediti al Fantacalcio. Le nauseanti trattative a suon di schiaffi alla povertà, hanno ammaliato una fetta importante di giocatori e procuratori che probabilmente non tornerà più indietro, e che certamente se dovesse farlo non sarà mai più la stessa cosa, perché “Chi parte per un viaggio non torna mai come prima” per dirla un po’ alla “proverbio cinese” e un po’ alla Temptation Island. E questo viaggio d’oriente ha mischiato le carte, ci ha lasciato un po’ attoniti, smarriti, increduli, ma soprattutto preoccupati: sta davvero finendo tutto?

Ci aggrappiamo agli Szczesny e Zielinsky per credere che non sia così, tra i pochi che di fronte alle miniere d’oro hanno girato la faccia dall’altra parte, ci guardiamo intorno, sfogliamo qualche quotidiano sportivo ma soprattutto i social, e ci rendiamo conto che in realtà siamo già immersi in una nuova stagione. Anche se Dazn costa troppo e ha cifre che ci fanno incazzare, anche se il campionato spezzatino ci terrà incollati alla tv pure il lunedì sera, anche se, mannaggia alla miseria, “non abbiamo comprato nessuno e sarà un’altra stagione di sofferenza”.

Quindi? Che si fa? Ma si, crediamoci ancora una volta. Rinunciamo all’aperitivo del giovedì, vediamo se alle bancarelle sul lungomare c’è già la maglietta di Retegui del Genoa, sbirciamo a che giornata c’è Juve – Milan che inizio a segnarmelo, non si sa mai, magari una puntatina allo stadio.

In fondo tra mille chiacchiere abbiamo una certezza: qualunque cosa succeda non riusciamo a farne a meno. L’app l’abbiamo già aggiornata qualche sera fa una notte in cui si faticava a dormire, con uno “Sbagliato” in una mano ed il nostro smartphone nell’altra, la prima di serie A, poi cade il 19 agosto e siamo ancora in vacanza, ma il baretto della piazza lo sa che un tavolino sotto lo schermo è già tutto per noi. E allora, senza crogiolarci troppo in questa irrequietezza ed in questa incazzatura, nera come l’abbronzatura che ancora regala alle nostre espressioni sul volto un senso di saudage, e tipica di chi ci sta capendo ben poco in questo fantomatico marasma, noi siamo ancora qua…eh già. Della serie: vediamo che succede, ma io non voglio perdermelo, che non si sa mai.

Chiudiamo gli occhi, novanta minuti, ancora novanta minuti, i nostri novanta minuti, quelli che da oggi scandiscono le settimane, quelli che ci faranno gioire, piangere, arrabbiare e godere…non c’è niente che ci renda più tenacemente vivi di quel pallone, di quel boato, di quel numero dieci sulle spalle. In fondo è solo tutto diverso nel bel mezzo di una passione che non è mai cambiata di una virgola.

Campionato, mi sei mancato: bentornata serie A.

Ebbene sì, la finalissima di Temptation Island non ha tradito le aspettative e posso dichiararlo con orgoglio. È stata un’edizione intensa, dove ho imparato mille dialetti e rispolverato parolacce che non usavo dal ’99, dove ho riscoperto l’importanza della raccolta differenziata soprattutto perchè c’è in giro ancora troppa plastica, dove ho capito che i casi umani abbondano (non solo nella mia vita per fortuna), e dove ho ridato credito alla mia intelligenza, cioè a tratti mi sono davvero sentita Rita Levi Montalcini.

Ora allacciate le cinture si parte per l’ultima fermata del viaggio nei sentimenti di Temptation Island.

Daniele e Vittoria

Tra le due coppie rimaste in gioco c’è quella composta da big gym e Madre Teresa di Calcutta, che mai come in questa puntata, però, tutto è sembrata tranne che una suora.
Daniele d’un tratto si trova con un abbonamento settimanale al pinnettu senza che lo abbia richiesto, probabilmente era in regalo con un quadricipite.
La sua routine è la seguente: video – “è una deficiente” – sigaretta -spacco tutto – “è una deficiente” – sigaretta – “Questo è l’ultimo video che vedo poi chiamo il falò” – “È una deficiente” e repeat. Praticamente va avanti così per 3 giorni. Sul fronte opposto c’è una Vittoria che mi ricorda tanto Malgioglio e il suo “Uccelli venite”. Piovono video, anzi “a mazzetta” per dirla sempre alla big gym. Ma in tutto ciò mi chiedo: ma la single Benedetta che fine ha fatto? Mi mancano un sacco i loro discorsi di fisica quantistica.

Intanto Vittoria opta per una convivenza lampo con il single Edoardo. I microfoni raccontano storie tipo “Fotoromanzi del Cioè che trovavi nelle ultime pagine”, in un’occasione arrivano pure i terzi incomodi Alessia e Lollo con Vittoria che “Se avessimo voluto fare qualcosa secondo voi lasciavamo la porta aperta? E comunque la voglia ce l’avete pure fatta passare…”. Ho quella vaga idea che Madre Teresa di Calcutta qui, si sia tolta il velo e non solo il velo. Comunque aveva detto che voleva un figlio mica aveva detto con chi.

In quella casetta succede di tutto (almeno l’ultima puntata ce li potevate regalare 30 secondi di gioia), mentre nell’altro villaggio i commenti si basano sulla costanza: È una deficiente” – sigaretta – spacco tutto – “È una deficiente” – sigaretta – “Questo è l’ultimo video che vedo poi chiamo il falò” – “È una deficiente”, con l’aggiunta perché Federico l’inutile il suo amico lo consola così: “Sono lì dentro da 40 minuti…sono lì dentro da un’ora…sono lì dentro da un’ora e mezza” e per chiudere: “Mi fanno più male i tuoi video che i miei”, grazie al cazzo tu quelli della tua fidanzata non li puoi vedere perché te li ha bloccati.

In tutto ciò big gym non si sente deluso ma “Deluso deluso deluso” e lancia un puf fuori dal pinettu che…ce l’avete presente quando Bud Spencer in “Bomber” lancia giù dal ring Rosco? Ecco, UGUALE. Che poi sono piuttosto convinta che, considerato il suo ego, la sua delusione nasca soprattutto dal fatto che lui in 40 minuti riesca a fumare pure 2 pacchetti di sigarette, a farsi la doccia, a portare a spasso il cane e a lavare pure la macchina. A questo pensiero non resiste e oltre che spaccare tutto, si spacca pure una mano bucando una porta e qui, signori e signore, alzatevi in piedi e concedete l’ennesimo applauso al Re delle colonne sonore perchè nemmeno Shazam avrebbe potuto trovare di meglio: “Un buco nel cuore” di Riccardo Cocciante. Qui è un buco nella mano, ma il senso sempre quello è.

Finalmente si arriva al falò di confronto: big gym ed il suo ego arrivano per mano e se ne vanno che limonano, lei si sente un cane bastonato e ci manca solo che s’inginocchi per quanto fatto (un bacio, confessa). Daniele non riesce a dire altro che “Ti rendi conto di cosa hai fatto?” senza porsi mezza domanda, e alla fine, escono da soli.

Alessia e Federico

Partendo dal presupposto che come mi urta il sistema nervoso Alessia in pochi al mondo, e che c’è un punto in cui l’omino delle colonne sonore pesca “Stupida” di Alessandro Amoroso e allora altro che Shazam qui siamo alla standing ovation stile Beppe Vessicchio a Sanremo, arriviamo alla chiusura del cerchio.

Lui è beatamente in villeggiatura, lei non sa più quali metodi escogitare per attirare la sua attenzione e così, all’improvviso, decide che lo pseudo fidanzato può tornare a vedere i suoi video. Per lui, chiaramente, è uno sbatti. E così vede il video del bacio tra lei e Lollo e indovinate un po’? Non batte ciglio. Ma zero proprio, preferirebbe andare a fare la cacca piuttosto che guardare i video della Psyco. Ed è Psyco per davvero perchè lui una cosa dice ed effettivamente, mi duole ammetterlo, ci azzecca. “Lo fa solo sotto le telecamere per farmi ingelosire”. La sua preoccupazione poi è tale che nel video successivo si cimenta in una sorta di spogliarello con tanto di lancio della maglia addosso alla “sua” Carmen. Sua è un eufemismo di quelli fotonici perchè se da un lato Federico l’inutile se la farebbe in tempo zero, dall’altro c’è una lei profumatamente pagata che finge di starci in attesa del bonifico e quando lui le salta addosso la scusa per rimbalzarlo è uno di quei 2 di picche che non dovrebbero farti uscire di casa per 6 mesi: “Scusa ma ti puoi spostare perchè tra te e sto faro in faccia non vedo nulla”. Per dirla alla FG sempre tramite la chat non GG: “Questo si è preso un palo in faccia che manco Di Biagio nel ’98”.

Psyco chiama il falò così il palo glielo stampa pure sui denti, lui riesce sempre a confutare ogni dubbio sulla sua utilità e se ne esce con un “Mi sa che stavolta accetto e ci vado”, eh vedi tu, Temptation Island è finito non è che possiamo aspettare Ferragosto. Sul tronchetto della felicità, di fronte ad un Filippo Bisciglia esausto, con la faccia da emoticon con gocciolina ogni volta che lei apre bocca, si parte con un “Hai finito di fare l’uomo senza palle? Finalmente ti presenti eh?” e via con il monologo più patetico che abbia mai ascoltato. Federico non può aprire bocca perchè è tutto un “Non ci provare, non trovare scuse”, la verità è che vorrebbe solo ribadirle per la centesima volta che non gliene frega un cazzo di lei. La versione contrastante della loro quotidianità, poi, mi fa venire i brividi: “Ma se non ti bacio mai”, “Non è vero Fede tu mi baci sempre”, “Ma se non usciamo mai, non andiamo mai a cena”, “Non è vero, andiamo sempre a cena fuori”, “Ma se non facciamo mai l’amore”, “Eh no, non è vero, dici solo un sacco di bugie”. Ma questa ci è o ci fa? La perla finale è che nessuno, nemmeno Filippo, le chiede del bacio con il single Lollo e lei, che ci è proprio affezionata alla sua collezione di figure di merda, se ne esce con “Ci tengo a dire che ho baciato il single Lollo perchè lui mi ha spinto a farlo”. E re-indovinate un po’? L’inutile fa spallucce. Ma pure Filippo fa spallucce. Ma vi prego fatele un disegno e datele una prolunga perché se no questa non ci arriva. Intanto esce da sola perchè “è figa solo lei e sa tutto lei”, ad ogni passo che l’allontana, l’inutile perde per 12 kg di zavorra.

Temptation Island, un mese dopo

Il post Temptation Island è la cosa più figa, perchè devi proprio capire chi è stupido fino in fondo e chi senza dignità nei secoli dei secoli amen.

I primi a togliere ogni dubbio, se mai ce ne fosse stato bisogno, sono Perla e Mirko.

Partendo dal presupposto che dopo un mese di vacanza (non che a Temptation Island abbiano lavorato in miniera) e 14 followers in più, si autoeleggono paladini dell’Instagram e professoroni di vita senza merito alcuno, ecco che tamagochi rappresenta a pieno la categoria appena citata. Arriva con Greta come se stessero percorrendo la navata centrale del Duomo, e bastano tre parole per capire che questi 2 proprio non ce la fanno. Occhi a cuore e sette cucchiai di miele in gola ogni volta che respirano, quando dicono che hanno già conosciuto le famiglie per poco ho un mancamento, ma l’apice è quel tatuaggio nuovo di pacca sul braccio: “I tuoi occhi, la mia cura”. Sì, la cura da uno bravo. Vi tralascio ciò che ho letto su Instagram (non c’è Temptation Island che tenga se non spulci almeno il Menestrello su IG) perchè alla vista di “Amore ti faccio la lasagna”, “Grazie suocera”, ho chiamato l’esorcista.

Perla dal canto suo è sotto un treno, ma non può darlo a vedere e così bacio stampo a Igor e poi monologo con livello di recitazione “Poesia di 4° elementare”. Quando sottolinea il mio EX fidanzato, anche Filippo deve trattenersi, resterà comunque negli annali per “Qui ho trovato il coraggio”, eh grazie sei andata a prenderti uno alle 7 del mattino e te lo sei portato nel letto davanti a tutti Italia, fai un po’ tu.

Al secondo giro si presentano i miei preferiti: Gabriela con una L e “u puorc e bastard” Giuseppe.

Felici e innamorati come non mai riescono comunque a regalare gioie: “Perchè lui con l’italiano non è che ci va molto d’accordo”, cazzo da che pulpito, ma l’exploit resta che dopo essersi dati più libertà a vicenda (e dal medioevo è tutto a voi la linea studio), Gabriela con una L spara un “Cioè è andato in pizzeria e dopo 3 ore manco un messaggino, eh niente ho chiamato in pizzeria e ho finto di essere la madre”. Stendiamo un velo pietoso.

Terzo giro: Isabella e Manuel. La differenza rispetto a quando sono usciti insieme dopo il falò è che lei si presenta con l’extencion.

Attenzione attenzione, ecco Francesca e Manuel, grazie a Dio da soli.

Lei che arriva sulle note di Dancing Queen per me ha già vinto, lui riesce pure a stupirmi con un discorso in cui chiede scusa per aver fatto passare il concetto di “Donna oggetto”, evidentemente hanno fatto tutti una puntatina in convento in questo mese.

Alessia e Davide sono insieme “ma non troppo”, cioè sono insieme ma sono in pausa di riflessione,…io veramente boh…inutili fino in fondo.

Vittoria e Daniele niente colpi di scena, da soli o meglio, lei da sola, lui si presenta mano nella mano con il suo ego e tutto ciò che riesce a dire è “Ha sbagliato lei, sono deluso, ha sbagliato lei, sono deluso”. Quando si dice analizzare razionalmente una relazione di 4 anni con maturità e giudizio. Troglodita.

Alessia e Federico mettono il punto esclamativo. Filippo pare in hangover, potesse spegnere le luci all’arrivo di lei credo lo farebbe pure tagliamo a mano ogni filo della corrente elettrica. Non fa in tempo ad accomodarsi sul divano che parte con la solita solfa e se c’è una a cui Temptations Island non è servito ad un cactus è lei, perchè non ha capito niente dall’inizio alla fine, e continua a non capire niente. Altro che “Stupida” di Alessandra Amoroso, “Rincoglionita” di Mary Seven & Friends (l’ho scritta stanotte, non temete). Al “Io mi aspettavo che mi chiamasse e mi chiedesse scusa” ho vomitato il panettone di Natale 2018. E quando invece lui, che vi prego procurategli un parrucchiere, parla di “un confronto telefonico civile e senza astio”…si capisce perfettamente il senso della misura dell’una e dell’altro.

Temptation Island, considerazioni sparse

Detto ciò siamo arrivati davvero alla fine. Ho detto e scritto talmente tanto che non ho più parole (nella maggior parte dei casi non le avevo nemmeno durante), resto fermamente convinta che questo programma faccia bene all’autostima e che, tra un congiuntivo ed un limone, l’obiettivo sia stato centrato. Ora si vocifera che possa esserci per la prima volta un’edizione invernale ed io già sogno ad occhi aperti immaginando un troglodita con il piercing al naso, di nome Mateo con una T, sdraiato sulla neve di Cortina che se ne esce con un “Se non vuoi più una persona è inulte che la prendi, staccala prima”.

The end.

ps. cane e vicino presenti anche all’ultimo post puntata

pps. dalla regia mi dicono che nel frattempo Greta e Mirko abbiano fatto il secondo tatuaggio: “Le tue lasagne, la mia panza piena: grazie suocerina”.

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Vorrei dire tante cose in questo momento ma forse è meglio sbollire la rabbia per un Mondiale Femminile che sarebbe dovuto e potuto essere tutt’altro.

L’Italia è fuori dai giochi e lo fa dopo una partita dominata dalla paura negli occhi, ed è questa la cosa che fa più male. Perchè c’è sempre modo e modo giusto? Perchè il testa bassa o testa alta vale tutto, giusto? Ecco, e allora è racchiuso lì il senso di ogni discorso, anzi, vado oltre, il senso dello sport.

Le tante scelte sbagliate e che forse solo chi segue il calcio femminile può capire, portano al suicidio tecnico e tattico, ma questo non può andare ad inficiare sulla mancanza di certezze e di consapevolezze, su un cuore ed un’anima che erano pronti a dare tutto e che invece sono stati forzatamente rinchiusi in gabbia senza trovare la chiave per far provare loro l’ebrezza della libertà.

E davvero, io mi chiedo, e questo vale a qualsiasi livello, come puoi pensare di affrontare una partita mondiale con il cuore in affanno e lo sguardo che traballa? Come puoi credere di mettere in fila, passo dopo passo, un cammino in cui raccogliere fiori e luce senza il sorriso sul volto?

Come puoi pensare di giocarti tutto senza coraggio? Il coraggio di rischiare una giocata, il coraggio di guardare negli occhi un’avversaria 15 centimetri più alta di te, il coraggio di fare scelte dolorose ma almeno sensatamente giuste, il coraggio di credere nell’esperienza, nel valore, nella volontà di ogni singola pedina di un domino che ora, ahinoi, è crollato rovinosamente a terra, mischiando ogni pezzo. E forse, alla luce di tutte queste constatazioni, ancor di più il coraggio di prendersi delle responsabilità…e questo è il più imperdonabile degli errori.

Se questa sera, sulla pagina IG di Donne sui Tacchetti, si parlerà di scelte, di tattica, di numeri, qui, l’ho già detto, lascio fluire le emozioni, e sono troppo arrabbiata, delusa, rammaricata, per tutto quello che poteva essere, e non è stato.

È il Mondiale femminile dei rimpianti? Sì, per l’Italia, è il mondiale femminile de rimpianti.

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