“Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blu, poi d’improvviso venivo dal vento rapito, e incominciavo a volare nel ciel infinito…”: vale scomodare Modugno per raccontare Gimbo Tamberi?

Vale, vale tutto oggi. Vorrei raccontarvi una cosa per spiegare Gimbo Tamberi dopo l’ennesima impresa di una carriera che è storia.
Agosto 2018: io, la mia follia, la mia fame di raccontare lo sport, ed un caro amico fotografo, saltiamo su un aereo con rotta verso Berlino, ci sono gli Europei di Atletica. Il day 6 di quella spedizione conta la finale di salto in alto maschile. C’è Tamberi in ripresa dopo il brutto infortunio patito alla vigilia di Rio, vediamo che combina. Sarà tornato quello del 2.39 record italiano?

La gara è un misto di emozioni, Gimbo lotta, eccome, la medaglia è alla portata, c’è la “cazzimma”, ma manca la brillantezza, 2.33 diventa l’Everest e a vincere è il padrone di casa, Przybylko, con 2.35. Io li sento i commenti attorno, “Non è più quello di prima”, “Non tornerà ad essere il Gimbo Tamberi che ci ha fatto sperare per un futuro top dell’atletica”, “Mi sa che ormai ce lo siamo giocati”, “Dovrebbe fare qualche sceneggiata in meno e lavorare di più”, eppure io avevo visto altro. Avevo visto un talento sotto le macerie, avevo visto il carattere di chi non conosce la parola arrendersi, la disperazione per un mancato podio, l’amore per uno sport che è sempre stato di più di una passione e di un’ossessione, saltare non era questione di vita o di morte, era di più, molto di più.

E poi ho visto gli occhi, gli angoli della bocca piegati all’in giù, le mani che gesticolano, ed un “fanculo” mega galattico che lampeggiava sulla fronte. In mixed zone c’era un Tamberi che mi raccontava le sensazioni, con i conti in sospeso in una mano e la voglia di spaccare il mondo nell’altra. “Ci sei Gimbo, la strada è “solo” lunga, ma è quella giusta, devi spostare ad una ad una le macerie che ti hanno investito, poi troverai la luce”. Mi ringraziasti, un sorriso amaro, forse un po’ per farmi contenta, e andasti via.

Quello sguardo sbarazzino e velato di malinconia mi restò dentro, ed oggi, ogni volta che ti vedo prenderti a schiaffi all’inizio di una rincorsa pennellata come in un quadro di Giotto, penso all’Everest che hai scalato a mani nude e alla luce che ti avvolge là, in cima, al cospetto di un mondo che ha capito, ha applaudito e si è inchinato.

L’Italia intera ti ringrazia perché l’atletica italiana ha trovato in te, “un capitano, c’è solo un capitano”, ma questo non basta, bisogna andare oltre, oltre le vittorie, oltre le medaglie d’oro, oltre quell’Inno che ogni volta è lacrime e pelle d’oca, perchè è solo oltre che scopri l’uomo, l’esempio, la gratitudine.

Ti siamo grati Gimbo Tamberi, ti sono grata: io l’atletica l’ho sempre amata profondamente, ma tu mi hai preso per mano e mi hai portato con te ad esplorare la luna, le stelle, il sole, hai spalancato una porta su un angolo di cielo di cui non conoscevo forma, né tanto meno esistenza. È l’angolo dei sogni che diventano realtà, delle leggende, di un libro bianco ed una penna, ma tu non ti sei limitato a scrivere la storia è la storia che ha scritto di te perché oggi la storia sei tu.

Resterai nell’Olimpo delle leggende italiane per sempre, ma sempre sempre sempre, con indosso un abito che nessuno è riuscito ad indossare in maniera così impeccabile, è l’abito del “Nothing is Impossible”, e dopo questa ennesima notte di magia ha definitivamente un altro senso…l’impossibile che diventa possibile sei tu.

Con il cuore in mano, ti dico grazie Gimbo Tamberi, infinitamente grazie.

foto Fidal

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È di nuovo serie A, suona la campanella e si torna sui divani, telecomando in mano e la testa che abbandona ogni pensiero per quei novanta minuti di magia.
È stata un’estate strana questa per il calcio italiano, dove ci si è affezionati alle under della Nazionale azzurra riuscendo a trionfare “solo” con i 19enni del ct Bollini, dove si è pianto alle immagini di Girelli & co con le mani in faccia, fuori troppo in fretta da un Mondiale che sapeva tanto di occasione per spalancare una finestra nel mondo, dove si è seguita la querelle Mancini – Italia – Gravina, come la più disarmante puntata di Beautiful in cui tutti stanno con tutti e con nessuno.

E magari fosse tutto qui, ci ha pensato il “calcio d’Arabia” a calare un paio di assi ricoperti d’oro, stravolgendo le aspettative di chi sognava un Milinkovic Savic alla Juventus o un Demiral da prendere a 3 crediti al Fantacalcio. Le nauseanti trattative a suon di schiaffi alla povertà, hanno ammaliato una fetta importante di giocatori e procuratori che probabilmente non tornerà più indietro, e che certamente se dovesse farlo non sarà mai più la stessa cosa, perché “Chi parte per un viaggio non torna mai come prima” per dirla un po’ alla “proverbio cinese” e un po’ alla Temptation Island. E questo viaggio d’oriente ha mischiato le carte, ci ha lasciato un po’ attoniti, smarriti, increduli, ma soprattutto preoccupati: sta davvero finendo tutto?

Ci aggrappiamo agli Szczesny e Zielinsky per credere che non sia così, tra i pochi che di fronte alle miniere d’oro hanno girato la faccia dall’altra parte, ci guardiamo intorno, sfogliamo qualche quotidiano sportivo ma soprattutto i social, e ci rendiamo conto che in realtà siamo già immersi in una nuova stagione. Anche se Dazn costa troppo e ha cifre che ci fanno incazzare, anche se il campionato spezzatino ci terrà incollati alla tv pure il lunedì sera, anche se, mannaggia alla miseria, “non abbiamo comprato nessuno e sarà un’altra stagione di sofferenza”.

Quindi? Che si fa? Ma si, crediamoci ancora una volta. Rinunciamo all’aperitivo del giovedì, vediamo se alle bancarelle sul lungomare c’è già la maglietta di Retegui del Genoa, sbirciamo a che giornata c’è Juve – Milan che inizio a segnarmelo, non si sa mai, magari una puntatina allo stadio.

In fondo tra mille chiacchiere abbiamo una certezza: qualunque cosa succeda non riusciamo a farne a meno. L’app l’abbiamo già aggiornata qualche sera fa una notte in cui si faticava a dormire, con uno “Sbagliato” in una mano ed il nostro smartphone nell’altra, la prima di serie A, poi cade il 19 agosto e siamo ancora in vacanza, ma il baretto della piazza lo sa che un tavolino sotto lo schermo è già tutto per noi. E allora, senza crogiolarci troppo in questa irrequietezza ed in questa incazzatura, nera come l’abbronzatura che ancora regala alle nostre espressioni sul volto un senso di saudage, e tipica di chi ci sta capendo ben poco in questo fantomatico marasma, noi siamo ancora qua…eh già. Della serie: vediamo che succede, ma io non voglio perdermelo, che non si sa mai.

Chiudiamo gli occhi, novanta minuti, ancora novanta minuti, i nostri novanta minuti, quelli che da oggi scandiscono le settimane, quelli che ci faranno gioire, piangere, arrabbiare e godere…non c’è niente che ci renda più tenacemente vivi di quel pallone, di quel boato, di quel numero dieci sulle spalle. In fondo è solo tutto diverso nel bel mezzo di una passione che non è mai cambiata di una virgola.

Campionato, mi sei mancato: bentornata serie A.

Vorrei dire tante cose in questo momento ma forse è meglio sbollire la rabbia per un Mondiale Femminile che sarebbe dovuto e potuto essere tutt’altro.

L’Italia è fuori dai giochi e lo fa dopo una partita dominata dalla paura negli occhi, ed è questa la cosa che fa più male. Perchè c’è sempre modo e modo giusto? Perchè il testa bassa o testa alta vale tutto, giusto? Ecco, e allora è racchiuso lì il senso di ogni discorso, anzi, vado oltre, il senso dello sport.

Le tante scelte sbagliate e che forse solo chi segue il calcio femminile può capire, portano al suicidio tecnico e tattico, ma questo non può andare ad inficiare sulla mancanza di certezze e di consapevolezze, su un cuore ed un’anima che erano pronti a dare tutto e che invece sono stati forzatamente rinchiusi in gabbia senza trovare la chiave per far provare loro l’ebrezza della libertà.

E davvero, io mi chiedo, e questo vale a qualsiasi livello, come puoi pensare di affrontare una partita mondiale con il cuore in affanno e lo sguardo che traballa? Come puoi credere di mettere in fila, passo dopo passo, un cammino in cui raccogliere fiori e luce senza il sorriso sul volto?

Come puoi pensare di giocarti tutto senza coraggio? Il coraggio di rischiare una giocata, il coraggio di guardare negli occhi un’avversaria 15 centimetri più alta di te, il coraggio di fare scelte dolorose ma almeno sensatamente giuste, il coraggio di credere nell’esperienza, nel valore, nella volontà di ogni singola pedina di un domino che ora, ahinoi, è crollato rovinosamente a terra, mischiando ogni pezzo. E forse, alla luce di tutte queste constatazioni, ancor di più il coraggio di prendersi delle responsabilità…e questo è il più imperdonabile degli errori.

Se questa sera, sulla pagina IG di Donne sui Tacchetti, si parlerà di scelte, di tattica, di numeri, qui, l’ho già detto, lascio fluire le emozioni, e sono troppo arrabbiata, delusa, rammaricata, per tutto quello che poteva essere, e non è stato.

È il Mondiale femminile dei rimpianti? Sì, per l’Italia, è il mondiale femminile de rimpianti.

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L’Italia femminile cade ed il tonfo fa sempre male, le ginocchia sbucciate bruciano, le lacrime a fatica rimangono lì, tra l’iride e la pupilla, gli angoli della bocca scivolano in giù mentre la testa soffoca di domande.

Se per mezz’ora te la giochi alla pari o anche meglio rispetto ad una corazzata che fa del calcio femminile un fondamento della propria cultura sportiva, è perché allora vali più di quattro noccioline all’aperitivo, e perchè le tue certezze sono costante. Poi subentrano esperienza e fisicità come un tackle di quelli che non fa sconti ed in sei minuti senti crack. Nel punteggio, nella testa, nelle gambe. Non gira più nulla. Ed in un attimo appaiono i fantasmi di un anno fa, mentre ti guardi attorno sbigottito alla ricerca di un volto che possa darti speranza.

Potrei parlare di ranking mondiale, di fisicità, di come sono stati preparati i calci d’angolo, degli errori individuali, delle scelte della ct e di tante altre cose, e potrei farlo in maniera totalmente costruttiva, ma questo preferisco farlo su altre pagine, oppure potrei sparare a zero, mettermi la toga e lanciare sentenze della serie “l’udienza è tolta” manco fossimo a Forum, ma quest’onore lo lascio soprattutto ai salotti social dei leoni da tastiera incravattati che anche oggi il massimo dello sforzo lo hanno fatto collegando il loro smartphone alla corrente, mica che si spenga sul più bello dei commenti beceri, io qui parlo di emozioni.

Un’emozione enorme e travolgente dall’Inno di Mameli alle mani di Giulia Dragoni, che dopo una sconfitta del genere, tutto ciò che riesce a fare è asciugarsi le lacrime e coprire il dolore che non ti aspetti, che poi, l’inaspettato, è sempre quello che fa più male. Ecco, è qui che mi soffermerei. Io ti auguro di conservarle quelle lacrime, cara Giulia, che ti rendono ancora più vera, più sedicenne tutto cuore. Tienile lì, nel palmo di una mano, non lasciare che le porti via il vento, conservale, fanne tesoro, un giorno capirai la bellezza di quel sentimento e forse, ci riderai anche un po’ su, ripensando a questa serata. Che poi, se proprio devo dirla tutta, io le lacrime le metto in bella vista, le lascio fronte sole, è lì che riflette la luce.

Forza ragazze, forza Italia femminile, c’è vita, c’è aria nei polmoni, c’è il Sud Africa, ma soprattutto ci siete voi e noi, INSIEME.

foto azzurrefigc

Ebbene sì, come d’incanto, Cristiana Girelli.
La prima partita dell’Italia al Mondiale Femminile la riassumi in quelle lacrime miste a grinta, in quell’esultanza, in quell’abbraccio che toglie il respiro, così stretto da non volersi disunire più. Ma su questo non c’erano dubbi perché un’Italia così unita vuole “solo” scrivere un pezzo di storia.

La penna, o la bacchetta magica che dir si voglia, oggi è passata tra le mani di Cristiana Girelli, che quel numero dieci sulla schiena non gliel’hanno certo cucito lì per caso e che chissà quanti pensieri deve aver collezionato nella sua testa per ottantaquattro minuti. Io me la immagino così la sua partita.

Fremi, incoraggi le compagne, ti agiti per un fuorigioco di qualche centimetro, tiri un sospiro di sollievo, poi dai un’occhiata alla coach, e anche un’altra, “magari mi nota, io ci sono”. Ti chiama a scaldarti, ma poi ti accomodi di nuovo. Guardi il tabellone, minuto 75 e ancora 0-0, “Dai mandami in campo, fammi giocare”, alzi lo sguardo un po’ timidamente e provi ad incrociare il suo. “Accelera Cristiana che tocca a te”, boom, prima scossa. Intensifichi il riscaldamento mentre c’è un rombo di tuoni nella tua testa ed un concerto di emozioni nel tuo stomaco. Le tieni a bada, devi essere concentrata, anche se un po’ ti lasci cullare da quella magia lì, è nota lieta, candore, purezza, cuore. Mannaggia al cuore oh, che ce lo metti sempre.

Ti liberi della pettorina come una leonessa che sta evacuando dalla gabbia, la lavagnetta si alza, c’è il numero di una 16enne piena zeppa di personalità che sta uscendo, ed il tuo numero, il numero dieci, quello dei leader, che sta entrando, tu che di personalità nei sempre avuta da vendere, fin da quando ti facevi largo tra la folla di un settore giovanile colmo di maschietti e con la tenacia di chi sapeva già cosa fare da grande “Io farò la calciatrice”. E così entri per davvero, il tuo Mondiale inizia in questo momento, all’84esimo, quando mancano appena 360 secondi per prenderti la scena. “Un’enormità” devi aver pensato, “posso fare di meglio”, e così in 180, mentre Boattin, che ti conosce bene, afferra dalla scatola dei “cioccolatini” quello più gustoso, tu lo scarti e lo trasformi in un Uovo di Pasqua nel mese di luglio, se non è una magia questa.

E la sorpresa? Nessuna sorpresa per chi ha segnato quasi 250 reti in carriera e più di 50 in Nazionale. Ma poi basta guardare il tuo volto, con quella “cazzimma” che potrebbe riempire almeno altre 12 carriere, e quelle lacrime che mai come oggi hanno il sapore più dolce.

Il tuo momento, “Il mio momento”, ripeti a basse voce, il nostro momento, gridiamo insieme.
INSIEME.
Questa magia non conosce limiti.
Si canta già: “Notti magiche” ad Auckland stanotte, “Giornate magiche” in Italia, dall’altra parte del globo.
E allora lo vedi Cristiana? Era già scritto, era già tutto scritto, era anche il 1990, il tuo anno, quando “Si inseguiva un gol sotto il cielo di un’estate italiana”… …grazie per averci messo la tua bacchetta magica, è così che il destino si trasforma in sogni, ed è così che i sogni si trasformano in realtà.

Foto Azzurre Figc

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Avete mai contato fino a 42137? Quarantaduemilacentotrentasette…come i motivi, come i sogni, come le volte in cui avete indossato un paio di scarpe con i tacchetti, come i respiri che vi hanno tenuto sveglie la notte e a distanza di sicurezza da un desiderio troppo grande per essere cullato da due mani troppo piccole, come i viaggi sulla luna andata e ritorno per un gol segnato al 90esimo o per un trofeo alzato al cielo, come le lacrime versate miste a sudore per ogni panchina di troppo, per ogni papà che non capiva le vostre scelte, per ogni sfottò quando vi presentavate al campetto del vostro oratorio e con voce timida sussurravate “Posso giocare anch’io?”, ai bulli del paese.

Quarantaduemilacentotrentasette come i graffi che avete contato sulla vostra pelle dal primo giorno di fatica ad oggi, come le ore in azienda prima di correre al campo ad abbracciare le vostre compagne, il vostro amico pallone, come i gradini scesi, saliti, scesi e saliti ancora al 18 di agosto, mentre le vostre amiche se la spassavano al mare tra un Mojito ed una serata in disco, e voi, sotto il sole cocente, agli ordini di un mister che sembrava non averne mai abbastanza.

Quaranta-due-mila-cento-trenta-sette, va scandito bene…non è un po’ troppo poco? Quanti zeri mancano per dare davvero un senso a questo racconto, a questa storia che altro non è, che la vostra storia? Eppure da questo numero non si scappa, non oggi (ieri) almeno, perchè 42.137 paia di occhi erano lì vicino, così vicino a voi da formare un tutt’uno con quel prato verde che sarebbe troppo facile accomunare alla speranza, osare, oggi, vuol dire accomunarlo alla realtà.

Nuova Zelanda – Norvegia è realtà, la nona edizione dei Mondiali di calcio femminile è realtà, il nuovo record di pubblico per il calcio, in Nuova Zelanda, non solo femminile, è realtà. Sì perché l’Eden Park di Auckland tutta quella gente non l’aveva mai vista prima. Ma anche comunicare ad uno stadio intero la decisone del Var, con un rigore assegnato alle padrone di casa ma poi sbagliato da Percival, è realtà. E poco importa per la traversa, la Nuova Zelanda contro la più quotata Norvegia ha vinto lo stesso, 1-0 firmato Wilkinson, stesso punteggio per Australia – Irlanda con Catley che invece il rigore non lo sbaglia e finisce dritta dritta nel tabellino marcatori, come a dire che giocare in casa non porta malaccio.

E adesso che succede? Succede, care ragazze, che se di sognare non ne avete avuto abbastanza e di osare tanto meno, potete spuntare dalla lista dei desideri quello che sta in cima “Giocare ad un mondiale di calcio femminile”, e potete scegliere a quale più remoto sogno delle vostre menti, affidare il primo posto, perché in fondo noi donne siamo fatte così, irrequiete ed incontentabili, collezioniste di obiettivi, insaziabili sognatrici. Ma da soggetto diventate anche complemento perché mentre sarete a caccia di (ri)vincite, c’è un mondo intero che vi ha già messo al primo posto e che sta sognando tramite voi, con voi e per voi: poi ci penseremo ai numeri, al gol mangiato, ai crampi, ai bla bla bla, alle partecipanti passate da 24 a 32 (leggi QUI un po’ di considerazioni), al montepremi triplicato rispetto al Mondiale di Francia 2019, alle favorite, ai diritti tv, alle parole di una giocatrice dello Zambia che, ahinoi, sono solo le parole non dette di chissà quante altre atlete…

…ci sarà un tempo per ogni cosa, ma questo è il vostro tempo, il vostro momento: chiudete gli occhi, mettetevi la mano sul cuore, riempite i polmoni e fate il vostro ingresso in campo, lasciando spazio alla bambina che ci ha sempre, sempre, sempre creduto: che i Mondiali di calcio femminile abbiano davvero inizio.

Caro Andrew Howe, ti scrivo, così mi distraggo un po’. Lucio Dalla cantava così quando voleva arrivare con musica e parole alle orecchie e agli occhi di un amico lontano, io invece ti scrivo non tanto per distrarmi quanto per focalizzarmi su tutto ciò che è stato, su tutto ciò che potrà essere e forse sarà per davvero.

Andrew Howe

Partiamo da lontano, molto lontano. Che anno era? Avevi già iniziato a vincere, avevi già messo in fila più di qualche record, e di lì a poco era nato un gruppo sul web perlopiù di ragazze(ine) scatenate che cercavano notizie su di te e si raccontavano la qualunque. Erano i tempi in cui ai fans (non ai followers dell’epoca moderna sia ben chiaro) si dedicavano le chat. Eravamo tutti iscritti al tuo sito ed ogni tanto ci si organizzava e passavi di lì a salutarci. Era il 2009, io era una ragazza semplice alle prese con gli studi ed il lavoro (quante finestre di chattate ho chiuso ogni volta che il capo passava nei paraggi del mio ufficio 😂), il sogno di fare la giornalista sportiva e la testa tra le nuvole, tu, invece, un campione che aveva già iniziato a farsi strada, un cassetto altrettanto pieno di sogni e speranze e quell’irrefrenabile voglia di spaccare il mondo.

Un giorno succede che ti colleghi alla chat e scrivi: “Ho una bellissima notizia, potremo incontrarci, sarò ospite di una discoteca in zona Varese”. Il Gilda. Il Gilda, Il mio (da quel momento) amato Gilda. Andrew Howe al Gilda, che fai te lo perdi? Organizzo la macchinata venerdì si va al Gilda è deciso. Ecco, è nato tutto lì. Cosa sia nato esattamente non è dato saperlo, ma dev’esserci un’etichetta ed un nome per ogni cosa? Io dico di no, non sono mai stata troppo amante delle definizioni assolute. “Andrew, vorrei chiederti tante cose…” “E chiedimele, chiedimele” con quello spiccato accento romano ed un sorriso che rubava la scena. Immancabili Jeramy e Mamma Renè che da lì, forse, mi ha preso un po’ a cuore (ed anche io ho preso a cuore lei ancor di più in questi ultimi mesi 🤞🏽❤️).

Andrew Howe

Nella stessa estate sono volata a Barcellona. Europei di atletica leggera, che fai non vai? Ti ho seguito alla Notturna di Milano, sono venuta a salutarti negli alberghi, ho passato i pomeriggi davanti alla tv, ho tifato per te, ho pregato per te. Quando quei maledetti infortuni non ti davano tregua, quando la gente si fermava all’apparenza, quando per ogni “Si è montato la testa troppo in fretta” rispondevo per le rime con un “Chiunque abbia qualcosa da dire su Andrew Howe deve vedersela con me”. Ti ho chiesto sostegno quando mi sono rotta la gamba (e di nuovo Mamma Renè…”Ho paura di non riuscire più a correre, di non poter più giocare a calcio” le dissi, e lei rispose “Se lo vorrai, ritornerai”). Il destino ha voluto che nel 2014 ci rincontrassimo di nuovo, fuori dalla stadio Olimpico di Roma. Ero in trasferta con i miei colleghi “Guarda c’è Howe”, “Ma io lo conosco”, e chi mi credeva? Poi è bastato un “Andrew, ti ricordi di me?” e si è riaperto un mondo di sorrisi “Maryyyyy, ma sei proprio tu, come stai?” rosicarono un po’ tutti.

Oh Andrew, non sai quanto ero innamorata del tuo gesto atletico, quando t’immergevi nella sabbia sembrava una sinfonia, l’eleganza del salto, lo strapotere nel toccare la pedana e volare, i muscoletti che straripavano sotto una divisa azzurro Italia che tu stesso hai strappato perchè “l’adrenalina non si reprime”, il mio urlo in quell’agosto del 2007 di fronte a otto metri e quarantasette centimetri di puro godimento, ancora rimbomba nel cortile di casa dei miei genitori, dove sono cresciuta. Ero convinta ci avresti fatto cantare l’Inno a squarciagola in una umida Londra del 2012 o in una calda Rio del 2016. Ci ho creduto così tanto che quasi la sento nelle orecchie l’orchestra. Chiudo gli occhi e ti vedo ancora lì, su una pista rossa, sorridente da accecare il mondo, con gli occhi chi sprigionano vita e abbracciano. Perché con te bastava un istante per sentirsi sulle montagne russe, e quello dopo a casa di fronte ad un camino, con un buon libro in una mano ed un bicchiere di vino nell’altra.

Andrew Howe

E adesso che succede Andrew, si volta pagina? Già, si volta pagina. È arrivato il duplice fischio.
La tua intervista a Verissimo mi ha sorpreso solo fino ad un certo punto, questo ritiro era nell’aria e credo sia la cosa giusta nei tempi giusti. Ma mi ha ho comosso, ancora una volta. Guardarsi indietro, a volte, ci fa vedere ancora più nitidamente le cose che non sono andate come avremmo voluto, ma ci fa anche cogliere l’essenza dei dettagli che ci sono sfuggiti. Credo sia così anche per te. Quando il pensiero si fossilizza sui “se” è difficile anche solo programmare il domani più vicino che ci sia, ma “Nella vita si diventa grandi nonostante” (cit. MG). E tu sei grande. Sei UN grande. E lo sei sempre stato. Anche quando le cose non venivano ed i sogni s’infrangevano. Averci provato, con tutte le tue forze, non solo ti ha fatto sentire vivo ma ha fatto sentire viva anche me, noi, e ti ha eletto a Campione, uno di quelli rari, uno di quelli che segna ma soprattutto insegna.

Credo che se ancora oggi diversi atleti si ispirino a te, alle tue imprese, e si dannino per battere i tuoi record è perché vali molto di più di una pacca sulla spalla. Credo che se un certo Marcell Jacobs ti ringrazi per l’esempio che gli hai dato è perchè in quei metalli pregiati vinti a Tokyo ci sia dentro un po’ anche tu, ma credo anche che l’uomo che sei diventato nel tempo non potrebbe fare da contraltare nemmeno ad un milione di ori olimpici. Vincerebbe a mani basse perchè di fronte a te persino i concetti di eleganza, umiltà, spirito di sacrificio, impallidiscono. Unico è il solo aggettivo che mi sobbalza alla mente e che si avvicina un po’ a ciò che sei stato.

Ma unico è anche il destino che ti aspetta: prendi tra le dita le bacchette della tua amata batteria, lo senti il ritmo dei tamburi all’unisono con quello del tuo cuore? Ecco, dagli una chance di essere felice.

Buon secondo tempo Andrew Howe, sempre al tuo fianco, anche adesso, soprattutto adesso.

Ti voglio bene

Mary

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Descrivere Gianluca Vialli è così difficile ed allo stesso tempo è così semplice. Faccio fatica a trovare il filo conduttore di quelle emozioni nate ad Italia ’90, passate per la notte juventina più magica di sempre, rivissute in una veste diversa, inaspettata, sconvolgente, a Wembley, un paio di estati fa.

Oggi i social si riempiono di cordoglio, di ammirazione, di elogi, all’uomo, al Campione, all’amico, al padre, al marito, all’allenatore, e c’è chi menziona gli occhi di un ragazzino che giocava sui campi degli oratori di Cremona, c’è chi dice che quegli occhi, quello sguardo non lo abbia perso mai.

Mi perdo via nel leggere i commenti di chi “sa tutto” di questa malattia infame, di chi crede ci sia un giusto e uno sbagliato nel modo di viverla ed interpretarla, e di chi pretende anche di sapere come sia dovutamente necessario raccontare il dolore. No, io non credo sia così. In un mondo di leggi che tengono in gabbia persino le intenzioni, voglio ancora pensare che di fronte ai sentimenti, e al libero arbitrio, non ci siano regole. Tutto ciò che condanno è l’ostentazione.

Gianluca Vialli era uno di noi. E lo era perchè ha trovato sempre il suo modo di vivere le cose. Ha trovato la grinta di ribaltare le partite, ha trovato l’estro di una rovesciata un po’ folle, quella dove se la sbagli prendi insulti dai compagni perchè “Bastava una roba semplice”, ha trovato il conforto nell’abbraccio di un fratello quando il destino era già segnato, ma più di tutto ha tenuto intatta la dignità di un Uomo alle prese con un dolore ingestibile, ingiusto, contraddittorio, sconfinato. Perchè? Ci si chiede così tante volte, perchè…lasciando che questa domanda irrisolta tolga il tempo di perdersi nei respiri che contano davvero, nelle emozioni del “qui e subito”.

Ho un frame nella testa ora: la felpa che indossava Vialli in quel 22 maggio 1996. Che c’entra direte voi…

Ecco, nel volto di Jugovic la strada per la gloria distante appena undici metri, negli occhi del capitano, il coraggio di un uomo che dice “Vai avanti tu, non ce la faccio”. Gianluca Vialli non avrebbe tirato alcun rigore in quella notte, probabilmente non se la sentiva, proprio lui che con il suo carisma aveva trascinato la squadra fino agli ultimi novanta minuti di un percorso epico. Una strada lunghissima compiuta alle spalle e di fronte, invece, appena undici metri. Juventus – Ajax finì 5-3 dopo i calci di rigore. Ferrara, Pessotto, Padovano e poi Jugovic. Infallibili. Il resto lo fece Peruzzi respingendo al mittente due penalty. Non ci fu bisogno dell’ultimo tiro che probabilmente sarebbe spettato a Del Piero. Ma non a Vialli, non al capitano. Lui aveva già la felpa, la sua corazza.

Vialli è l’elogio alla debolezza, con una felpa addosso o con tre maglioni sotto la camicia per nascondere i segni di una lotta continua, non fa differenza. Vialli è un bimbo grande che piange davanti a tutti e non si vergogna nel farlo è colui che dice: “Non è vero che il cancro è il grande nemico da sconfiggere, non è una lotta per uccidere lui, ma è una sfida per cambiare se stessi”.

E ancora: “Ho meno tempo per essere da esempio, adesso so che non morirò di vecchiaia. In questo senso cerco di essere un esempio positivo insegnando ai miei figli che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita. Ridere spesso, aiutare gli altri: questo è il segreto della felicità”.

Buon viaggio Capitano. Grazie per avermi regalato una delle notti più indimenticabili della mia vita. Mio padre mi disse: “Andiamo in piazza a festeggiare, Mary vieni anche tu?”. Quella bambina che il giorno dopo andò a scuola con i segni sul volto di una notte insonne, non aspettava altro.

Il 22 maggio 1996 me lo ricorderò per sempre, e per sempre te ne sarò grata.

Ciao Luca, ciao bomber.

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Se vi dicessero che la prossima partita di vostro figlio verrà diretta da un arbitro donna, probabilmente vi mettereste le mani nei capelli, sbraitereste, imprechereste chissà quale divinità o, nella migliore delle ipotesi, storcereste il naso.

Io li sento ancora nelle orecchie l’eco dei commenti raccolti sulle tribune di periferia: “La domenica mattina dovresti stare a casa a stirare”, “Signorina lei è buona solo per una cosa”, “Ma a fine partita me lo lasci il numero?”, “Una donna a commentare il big match di oggi, dove siamo arrivati”, “Quanto scommettiamo che stasera questa viene a cena con me?”. Così, tali e quali, virgole comprese, indirizzati alla giornalista, alla dirigente, al direttore di gara di turno.

Ci sono voluti più di 120 anni di serie A per far sì che un giorno, in un Sassuolo – Salernitana qualsiasi, sbucasse lei, Maria Sole Ferrieri Caputi, un arbitro donna. E fa notizia, già, fa notizia. Ed oggi è un bene così, è giusto che se ne parli, sono sensate le copertine, i commenti, i giudizi (senza pre davanti per una volta), sensato il clamore, lo sbigottimento e anche l’incredulità. Va bene tutto. E va bene perchè questo è a tutti gli effetti l’inizio di una nuova era, l’era in cui la meritocrazia inizia a sgomitare tra la folla a tal punto da rubare la sedia a chi vive in poltrona da una vita, cuscino morbido rosso sotto il sedere e vista dall’alto con servizio bar incluso.

Di fronte a questi perbenisti che non passano mai di moda, le trovate tutte in riga là le donne che non si sono mai arrese: elmetto in testa, scudo, lancia, ed un’armatura che abbraccia un corpo ricco di ferite e ammaccature, ma che a fatica contiene un “cuore grande così”. Passa tutto da lì: le emozioni, la competenza, la leggerezza, la cassaforte a doppia combinazione di sogni mai compresi ma non per questo abbandonati. Il cuore di una donna si affida al proprio battito per scandire i sacrifici di una vita, il cuore di una donna che ce la sta facendo non conosce affanno che non possa domare, amore al quale resistere. E quell’amore se lo costruisce da sola, nel tempo, con pazienza e determinazione, collegandolo indissolubilmente alla rima baciata del proprio talento e della propria passione.

Ed è così che voi, non tutti, ma ancora troppi, quando pensate di aver vinto la partita, venite infilati nel recupero senza nemmeno riuscire a capire da dove sia passato il pallone, probabilmente eravate già impegnati a festeggiare sotto la curva.
Può sembrare incredibile, lo so, ma non bastano centoventi anni per fermare una donna che sa cosa vuole e che merita di stare dove ha scelto di andare.

In bocca al lupo per il prosieguo della tua carriera Maria Sole Ferrieri Caputi, mi auguro che la tua forza di volontà e la tua tenacia siano d’esempio per tutte quelle persone che pensano di non farcela, uomini o donne che siano non fa alcuna differenza.

Foto Fonte FB

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Il mio Festival dello Sport sta volgendo al termine, tra poche ore sarò di nuovo a casa ed ancora una volta porterò dentro di me tutte le risposte a quell’unica domanda: “Ma perché hai scelto questa vita?” come se ci fosse davvero un perché.

Spiegare non fa più parte di me, raccontare sì. Raccontare sempre. Colorare il mio blog con le mie emozioni mi aiuta davvero a focalizzarle, a rendermi conto di ciò che ho vissuto e di tutto quello che ancora ho davanti a me; il bicchiere mezzo vuoto, per me resta un’accezione positiva (soprattutto se la metà mancante me la sono scolata io 😂).

Il Festival dello Sport, part 2

La seconda parte del mio Festival è tante cose ma più di tutto è Claudio Marchisio e Federica Pellegrini. Nome e cognome. Il principino e la divina, l’eleganza bianconera tatuata dentro, mischiata al midollo, e la grande bellezza di colei che ha rescritto il significato di limiti. E di record. E di impresa. E di tante altre cose. Ma mi sono sorpresa anche con un Fausto Desalu semplice, con Batigol e Zanetti, con le campionesse del mondo di volley di vent’anni fa e con il professore Seedorf. È stata la solita full immertion in un frullatore di emozioni che però di solito e di uguale a ciò che già era stato, non ha proprio nulla.

Inutile che stia a snocciolarvi ore d’interviste, se questo blog si chiama Mary Seven ci sarà un motivo, e allora facciamo che di ogni incontro vi evidenzio le sette affermazioni che mi sono piaciute di più (con qualche eccezione nel numero, concedetemelo).

Stano – Crippa, nati per correre

“La fatica non sempre riesci a domarla, però alla fine ti ripaga”. (Yeman Crippa)

“Arrivare in Italia per me è stato come arrivare in paradiso”. (Yeman Crippa)

“Io voglio riscrivere la storia a modo mio e spero fra 30 anni quando qualcuno batterà i miei record di non dire le stesse cose che ha detto Antibo e di applaudire chi riuscirà a sopravanzarmi”. (Yeman Crippa)

“Riportare l’oro mondiale in Italia, nella marcia, dopo 19 anni, è un orgoglio infinito”. (Massimo Stano)

“Io mi diverto faticando, non è facile da far capire, soffro così tanto in allenamento che poi in gara è una goduria”. (Massimo Stano)

“Nel mio paesino manca la pista, ho tirato una frecciatina al mio sindaco e gli ho mandato una foto da qui, poi gli ho detto “Vedi tu cosa devi fare”…ma io la pista non la vorrei per me, la vorrei per togliere i giovani dalla strada, lo sport ti insegna tante cose”. (Massimo Stano)

Quando faccio un risultato punto a trasmettere le mie emozioni ed esperienze ai bambini, i bambini iniziando dallo sport girano il mondo, non conoscono diversità, socializzano, crescono, scoprono, questo è il bello”. (Massimo Stano)

Claudio Marchisio, il principino, fino alla fine

“Tornare alla Juve? Non sono mai andato via”.

“La Juve il primo amore, il primo sogno, il primo momento in cui mi hanno dato la borsetta, era il ’93, per me era Natale”.

“Ho detto non ce la faccio più, mia mamma non mi diede pressioni, lei prese tempo, mi disse aspettiamo un mese, se non cambia questa situazione, prendiamo una decisione”.

“Per il sogno non basta talento e impegno, devi avere l’insegnante giusto, in questo caso i miei genitori”.

“Il dna della Juve è uscire dalle difficoltà con la forza del gruppo”.

“Gigi ha detto che non gli servono i trofei per capire il proprio valore e ha ragione, ma io non riesco ancora oggi a digerirla”.

“Miretti è una bella notizia, non solo per Juve ma per il calcio italiano, la parte più bella è la sua spensieratezza”.

“C’è un Marchisio nel calcio italiano? Questa è una domanda che ti fa capire che gli anni passano”.

“Si lasciano andare gli italiani forti e si prendono stranieri che poi vengono qui e non danno nemmeno tutto”.

“Le uniche barriere che mi piacciono sono quelle sulle punizioni”.

“Mi è scattato qualcosa la sera della finale di Champions quando ho visto quello che era successo in piazza San Carlo, ho detto “Bisogna fare qualcosa”.

“Bandiera non è il tempo che stai con una squadra è quanto dai a quella squadra”.

Re Giorgio Chiellini, un miracolo sportivo

“Due mondiali mancati, il rammarico è non poter fare vivere quelle emozioni ai bambini”.

“Cosa sta succedendo alla Juve? Vorrei tanto saperlo ma io soffro come tutti i tifosi”.

“Il rimpianto più grande è non aver giocato la finale di Berlino, avremmo perso uguale forse, ma avrei meritato di giocarmela”.

“Nel calcio l’intelligenza è riuscire a mantenere l’equilibrio dentro e fuori dal campo, questi sono i campioni, questi sono quelli che ce la fanno”.

Federica Pellegrini, la divina

“A Tokyo sorridevo mentre nuotavo, ho capito fosse l’ultimo atto mentre giravo nel villaggio olimpico, non potevo fare niente in più di quello che ho fatto”.

“Mi auguro che chiunque vinca le elezioni si impegni a salvare lo sport, lo sport deve essere non solo protetto ma proprio aiutato”.

“Lo sport è il motore trainante di questo paese”.

Da Batigol a Zanetti, tango argentino

“Messi – Maradona? Dieci a tutti e due, ma credo che la leadership di Diego fosse diversa, era più influente, oggi però Messi è maturo al 100% ed è pronto per questo”. (Javier Zanetti)

“Quanto al look io sono nato così, l’ho chiesto pure a mia mamma, mi sveglio già pettinato”. (Javier Zanetti)

“Quando fai l’errore cresci, quando lo capisci impari”. (Javier Zanetti)

“La differenza la fanno i valori umani, quando riesci a trasmettere quelli sai che hai vinto”. (Javier Zanetti)

“Il risultato è un impostore, sia nella sconfitta che nella vittoria, il mondiale 2002 ci ha visto uscire al girone, io non lo vedo un fallimento, noi abbiamo dato tutto”. (Batistuta)

“Ho perso molto, molto più di quello che ho vinto, ma è così che ho fatto carriera”. (Batistuta)

“La sconfitta è una buona consigliera, ma quelli intelligenti imparano anche dalla vittoria”. (Batistuta)

Fausto Desalu, veloce come il vento

Per il campione olimpico della 4×100 non ho delle citazioni, è un ragazzo semplice che si confonde con la folla, un atleta umile, dedito alla mamma e al sacrificio. Ma quello che mi ha colpito più di tutto è stato il gesto di chi lo ha intervistato, Carlo Martinelli.
“Dalla mia infinita collezione di libri ne ho sottratto uno, 19.72, autografato da Pietro Mennea, in fondo ti scrivo il mio numero di telefono, quando arriverà questo giorno, quando batterai questo record mi chiamerai e ci abbracceremo virtualmente”.
Spiazzata. Ho comprato il libro, “Veloce come il Vento” e me lo sono fatto autografare.

“Non avevamo fatto 12mila km per sognare in piccolo, volevamo sognare in grande. Stasera si fa la storia, ci credete ragazzi?”

Piccinini – Lo Bianco – Togut, vent’anni dopo

Nel continuo botta e risposta di tre campionesse mondiali artefici di un 2002, c’è ancora la stessa intesa. La Picci non le manda mai a dire, e le sue facce la dicono lunga, Leo Lo Bianco giostra il gioco, Togut schiaccia qualsiasi cosa passi ad altezza rete “In quella finale penso di avere schiacciato qualche palla anche ad occhi chiusi”. E sono tante le similitudini con La Nazionale che ha appena iniziato l’avventura mondiale e che vuole sognare e farci sognare.
“Negli occhi dei ragazzi di Fefè ho rivisto lo stesso ardore che avevamo noi, vent’anni fa, è passato tanto tempo ma se ci penso bene non è passato nemmeno un giorno”.

Zitti tutti, al Festival dello Sport arriva il prof. Clarence Seedorf

“La sensazione che puoi competere con chiunque e vincere contro chiunque significa essere usciti dalle difficoltà ed essere una grande squadra”.

“Il gol a Buffon? Come mi è venuto in mente di tirare da lì? Ancora me lo chiedo pure io”.

“La mentalità di essere migliore dei migliori, questa cosa nasce da piccolo, la capacità di essere pronto per grandi sfide la puoi allenare, ma devi essere bravo a gestire le emozioni, io l’ho imparato col tempo questo”.

“432 presenze con il Milan, lo straniero che ha avuto più presenze con questa maglia, ma la partita più bella resta sempre la prima, senza quella non ci sarebbero state le altre”.

“Quanto mi è mancata l’Olanda nel mondiale del 2006 e quanto sono mancato io a loro? Non ho rimpianti per le cose che ho deciso io”.

“Ti sei chiesto perché non sei di nuovo in panchina?
L’Italia non è un paese razzista, ma talvolta lo è il sistema e questo sistema non dà pari opportunità”.

“Ad ottobre sarai di fronte a 54 ministri dello sport in Turchia, cosa gli dirai?”
Che si devono dare una svegliata”.

Festival dello Sport, quanto manca alla prossima edizione?

Foto Festival dello Sport

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