La sfida Barca – Juve finisce 0 a 3. Pirlo dirige l’orchestra di una una squadra di musicisti che attacca la spina al primo minuto e probabilmente non l’ha ancora staccata, festeggiando a ritmo di “Siuuuu” la qualificazione da prima del girone agli ottavi di Champions League.

BARCA – JUVE, PAGELLOIDI BIANCONERI 

Buffon 7 – Riflessi pronti a partire da quando nel primo tempo si distende su Messi e gli dice il primo no della serata; attenzione altissima anche nelle insidiose mischie finali di primo tempo, poi nella ripresa è un continuo rispondere presente, prendendoci gusto parata dopo parata, alzando la voce con i compagni perché quella porta doveva, a tutti i costi, rimanere inviolata. 42 anni e la voglia di un ragazzino. IMMENSO

Danilo 6 – È il giocatore che ha giocato più minuti con la casacca bianconera e deve esserci un motivo: sarà forse per quella costanza che impiega in ogni zona del campo, seppur con piedi che, sì insomma, mandano sulle Ramblers pure la palla rifornitagli da CR7. Brividi veri nel momento in cui decide di giocare con gli spagnoli appoggiando loro una punizione facile facile, poi ritorna in sé e ci mette le pezze. UN PO’ COSI’, UN PO’ COS’HA?

De Ligt 7 – Raiola ha detto che diventerà il più forte difensore al mondo, per questo forse ci sarà tempo, per adesso si “accontenta” di chiudere spiragli a Messi e Griezman dimostrando che loro saranno pure Messi e Griezman, ma lui è De Ligt, non uno qualunque. MURO.

Bonucci 7 Piaccia o non piaccia è il capitano della Juve ed il temperamento che mette in campo è lo stesso che chiede ai suoi compagni non solo per novanta minuti ma anche quando si scatta la foto vittoria. Per questione di centimetri non torva la rete che farebbe definitivamente calare il sipario. CAPITANO.

Alex Sandro 6.5 – Per lunghi tratti sembra di rivedere Alex Sandro quello capace di pennellare cross e di leggere le situazioni a memoria, un po’ impreciso nelle ripartenze ma è vero anche che è rientrato dall’ennesimo guaio muscolare appena novanta minuti fa. SULLA BUONA STRADA.

Cuadrado 7.5 (dal 85′ Bernardeschi sv) – Ormai è il pasticcere bianconero di fiducia: con il Natale alle porte sforna cioccolatini che sono solo da scartare e gustare, per tutte le altre prelibatezze, tunnel, rapidità di gioco e di pensiero, chiusure cavalcate, e dolci a volontà, andare a tutti “Da Juan”…GOLOSONI

Mckennie 7.5  – Nel mio gruppo del fantacalcio è soprannominato patatine Mckennie e stasera per la seconda volta consecutiva ha dimostrato di essere croccante al punto giusto, sia nello sradicare palloni sia nel concretizzarli, in acrobazia e con tanto di esultanza da tenerone innamorato. OH YES.

Arthur 7 (dal 71′ Bentancur 6.5) – Da piccolo deve essersi innamorato del pallone e nell’età e nell’altezza non è nemmeno cresciuto molto; il pallone deve essere il suo più fedele amico e se lo tiene stretto; deve migliorare nelle verticalizzazioni, vediamo se Pirlo si presta come insegnante di sostegno. Finalmente…PROMOSSO

Ramsey 6.5 (dal 71′ Rabiot 6.5) – Nel primo tempo sfila al Camp Nou con un’eleganza da lord che beve il tè delle 5 e firmando autografi da vip consumato, nella ripresa il pennarello si scarica ma lui non se ne accorge se non quando meriterebbe il gol con quel sinistro all’angolino ma ne esce fuori un’ottima parata ed un calcio di rigore. SIR RAMSEY.

Morata 7 (dal 86′ Dybala sv) – Sul dizionario alla voce attaccante al servizio della squadra hanno appena inciso col sangue Alvaro Morata. Perché lui fa tutto, tranne che segnare, per qualcuno potrebbe sembrare poco, per altri, soprattutto per Pirlo, è tantissimo. GIGANTE.

Ronaldo 7.5 (dal 90′ Chiesa sv) – 750+2. E quel +2 è decisivo per il primo posto nel girone, affascinante perché avviene al Camp Nou. Peccato non ci sia pubblico a regalargli la standing ovation che avrebbe, ancora una volta, meritato, ma c’è un bis di “Siuuuuuuu” che rimbomba nelle case di tutti quei tifosi che stasera devono ammettere “The greatest showman in here” e non è Messi. In questa serata tra lui e la pulce la spunta lui, ma l’immagine più bella resta l’abbraccio che contiene 1500 gol e una stima infinita. ALIENO.

Pirlo 7 – Si prende la prima vera soddisfazione da allenatore della Juventus preparando una gara di questo calibro in maniera perfetta. La strada è lunga ma dopo stasera, è quella giusta. Vietato distrarsi.

foto instagram Juventus 

 

Leggi anche –> Ronaldo Messi, il duello di due campioni che non bastano mai

L’eterno duello Ronaldo Messi pronto ancora a una volta a farci sognare e a raccontarci una favola fatta, incredibilmente, di due principi azzurri

Ronaldo Messi, Messi Ronaldo è un po’ come la prova commutativa, scambiando gli addendi il risultato è sempre lo stesso.

Un risultato fatto di tantissimi zeri e cifre di cui si perde il conto, perché “numeri su numeri” questo duello va avanti da dodici anni e no, non ci ha ancora stancato. Non si sono stancati loro nel collezionare record, non ci siamo stancati noi nel guardarli, ammirarli, seguirli, idolatrarli quasi fino al maniacale, con quel dubbio amletico che per quanto mi riguarda non troverà mai risposta: chi è il più forte?

Campioni a confronto, un po’ di numeri 

I due fuoriclasse si sono affrontati 34 volte e in 34 volte 16 sono quelle che hanno visto sorridere la pulce, 9 quelle in cui ha primeggiato CR7 ed altrettante quelle in cui è finita ad armi pari.

21 a 18 il computo dei gol in favore dell’argentino, Ronaldo si tiene però stretto il record più fresco ovvero quello dei 750 gol complessivi in carriera contro i 712 di Lionel. 

L’amato pallone d’oro è stato elevato al cielo da Messi in 6 occasioni, 5 i “Siuuuuuuu” del portoghese per l’ambito riconoscimento, che però si mette in prima linea nelle champions vinte, 6 a 5 e nei gol segnati proprio in questa competizione (132 a 118).

Eppure di questi 132 gol nemmeno uno contro la squadra di Messi, sarà la volta buona?

Ronaldo Messi, oltre i numeri 

Ma oltre quelle cifre e quegli zeri che fatichi anche ad allineare, c’è molto altro, c’è tutto il resto. C’è l’estro, la straripante forza, il dribbling secco, i gol in tutti i modi, la mano sul cuore dopo una standing ovation e le dita al cielo in memoria di una nonna che ci aveva visto lungo.

Ma c’è anche il reverenziale rispetto nei confronti dell’uomo e del campione che ha reso l’uno più forte dell’altro.

Ronaldo Messi questa sera di nuovo uno di fronte all’altro, per lasciare altri segni indelebili nella storia del calcio di cui loro sono maestri nello scriverne pagine.

Al Camp Nou in una sfida che solo sulla carta potrebbe dire poco (Barcellona e Juventus sono già qualificate al prossimo turno di Champions League, i bianconeri dovrebbero vincere 3 a 0 per prendersi il primo posto nel girone) la banalità non è ammessa.

Di fronte alla caratura preziosa di due campioni che non perdono occasione per stupire, è lecito aspettarsi di tutto, consapevoli, però, che quel tutto non comprenderà mai ciò di cui sono capaci perché la carta d’identità arrossisce di fronte al talento, incommensurabile, non quantificabile, di due geni venuti da chissà quale pianeta e “marziani in patria”, pronti a farci sognare ancora a lungo.

foto FB Cristiano Ronaldo
foto FB 
Leo Messi

Violenza sulle donne, è sempre il 25 novembre

La mia giornata è stata campale, è iniziata prestissimo e non è ancora finita. Per dirla tutta questo mio 25 novembre è iniziato circa una settimana fa quando si è iniziato a parlare dell’ennesima ricorrenza della Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne.

Ho lasciato che il criceto che vive con un mutuo trentennale nella mia testa, con tanto di tacito accordo che si rinnova di volta in volta, girasse un po’ su quella ruota fino a produrre le scintille che illuminano il palcoscenico delle idee. 

Luce accesa et voilà: un paio di video, interviste, parole, immagini. I soliti strumenti comunicativi che traducano il segno rosso in faccia in un segnale distintivo, per dire “Ci sono anche io e sono qui”, per dire “Non smetterò di lottare” ma anche per riconoscere le cicatrici, mettersi allo specchio e non avere paura.

La violenza sulle donne è qualcosa che non può essere racchiuso in un livido sul volto o in un aborto volontario, questa è l’estremizzazione di un peccato mortale che andrebbe condannato all’ergastolo. Ma le sfaccettature che raccontano il disagio, l’ineguaglianza, il mobbing, l’abuso dei social, le parole spiaccicate in faccia, non hanno un dolore più superficiale o che non merita lo stesso meticoloso ascolto.

Violenza sulle donne, vietato tacere

La violenza è là dove non c’è rispetto, ed il rispetto è un diritto inalienabile di ogni essere umano.

Perchè se è vero che il 2020 possa contare 91 femminicidi nei primi 10 mesi, uno ogni tre giorni, il 2020 non avrà mai abbastanza mani per tenero conto delle offese gratuite, delle minacce, delle prese in giro, del male piovuto dal cielo perché sei troppo grassa, troppo magra, troppo bella o troppo brutta.

Il 2020 non terrà mai il conto nemmeno dei gruppi whatsapp e degli amici del calcetto che se la tirano di fronte ad un video di sesso, non terrà il conto della madri perbeniste né tantomeno delle direttrici di scuole materne che licenziano le loro dipendenti senza una giusta causa o un giustificato motivo e non terrà conto nemmeno delle telefonate non fatte quando denunciare sarebbe stata l’unica via d’uscita.

In questo giorno dove forse mi sento guerriera più che in altre occasioni ho redatto interviste, ho collaborato al progetto “Col Cuore contro la violenza sulle donne” e ho organizzato un video che snocciola via tra un monologo toccante e qualche calciatore senza gel nei capelli ma con il segno rosso sul volto. E nel cuore.

Perché non importa dove la nostra voce possa arrivare, quello che importa è NON TACERE. MAI.

Il mio articolo per VARESE SPORT

Il progetto video “Col cuore contro la violenza sulle donne

Il video con monologo per il FUTSAL VARESE

 

Leggi anche –> X Factor 2020: il 4° live è da pop corn, vodka e frecciatine

Happy birthday Paulo Dybala, joya bianconera

Ho avuto la fortuna di vivere la mia adolescenza nell’epoca Del Piero, un numero dieci di quelli che ti resta dentro, che ti cambia la vita, che ti accompagna, ti cresce, che scardina dalle pareti dell’anima le emozioni a forma di ancora, appigliate a quegli scogli, e dello stesso colore del mare.

Il mio amore per il calcio nato esattamente con me e conosciuto nelle notti magiche di un Totò Schillaci che ci ha fatto accarezzare un sogno, è cresciuto pari passo con Alex, un giocatore, un capitano, un uomo fuori dall’ordinario.

Quando Del Piero lasciò la Juve nella mia testa scattò un “non ci sarà mai più un numero dieci degno di indossare questa maglia”, ed è ancora così, e probabilmente sarà sempre così.

Un giorno, all’improvviso…Paulo Dybala

Ma poi un giorno, in uno dei miei mille lavori notaii uno sguardo e sentii l’esigenza di far ricongiungere quello sguardo non solo con quei due colori, ma con quella frattura, non per colmarla o ripararla, ma per rispolverare ciò che c’era accanto e che aveva comunque ragione d’essere.

È strano perché il gesto atletico di quella sfida non era altro che un calcio di rigore. Routine, forse, nell’arco di una partita, quasi banalità, ovvietà per un numero nove con la maglia rosanera. Il tiro dagli undici metri è sempre quella cosa che se lo segni, hai fatto il tuo, come se quel gol valesse meno di altri, e se lo sbagli sei lo zimbello di tutti per un po’, addirittura un bel po’ se è poi uno di quei rigori che pesa.

Eppure, ti guardai calciare un rigore, e rimasi coinvolta, troppo coinvolta per tenermi dentro un: “Questo deve venire alla Juve“. La concentrazione, i pochi passi, quell’interno sinistro che pareva una carezza al pallone, il gol, l’esultanza al punto giusto, non c’è stata solo una componente che mi ha convinto è stato un mix, una linea che ha unito i puntini che davano forma ad un numero, ad un nuovo numero dieci.

Ha segnato, con il numero dieci Paulo…Dybalaaaa

paulo dybala

Il trasferimento a Torino, i primi gol, le prime magie, le incomprensioni, i “vendiamolo” anzi no “teniamolo”, la doppietta al Barcellona, un cuore infranto che finisce sui giornali, gli scudetti, le punizioni, quella terribile finale con il Real Madrid, le tue paure. E ancora il gol con la Lazio, uno dei miei preferiti, la tua prima tripletta bianconera con il Genoa, proprio quando al mondo stavo arrivando “Il Riky del mio Cuore”, la convivenza con tutti gli attaccanti passati da Torino e non rimasti, sei stagioni ed il premio di miglior calciatore della serie A, il tutto condito dai soliti tormentoni…”È il nuovo Messi”, e i “Non sarà mai come Del Piero”, dimenticando sempre che tu sei semplicemente Paulo Dybala. 

Aveva ragione Alex quando diceva:La maglia numero 10 della Juve deve essere indossata, non ritirata. È bello che tutti i bambini possano sognare di giocare con una maglia che in 113 anni è stata vestita da grandissimi campioni. La Juve c’è stata, c’è e ci sarà a prescindere da Alessandro Del Piero“.

Non me ne vorranno i Tevez e i Pogba ma io resto della mia e dopo Alex Del Piero non trovo altro giocatore al mondo che possa indossare con lo stesso stile la maglia numero 10 della Juventus.

Ci sono cose che non possono essere messe in discussione, tipo queste. ⬇️

Buon compleanno Joya, buon compleanno Paulo Dybala.

 

photo loscherma

 

Leggi anche –> X Factor 2020, gg per tutti (o quasi) anche nel 3° live

 

 

Alex Del Piero, buon compleanno!

4+6= 10 lo hai scritto tu stesso a caratteri cubitali su tutti i tuoi social, inondati come sempre di dichiarazioni d’amore per te ancor più che di auguri.

Il dieci che solo tu hai saputo indossare con quello stile, il dieci che ci ha fatto innamorare, il dieci che è stato simbolo, icona, eleganza incommensurabile di un giocatore trasformatosi in leggenda che non avrà eguali, nonché voto ad un talento sopraffino.

Un dieci comunque enorme se accostato a quei diciannove anni di Juve dove non sono mancati nemmeno i dettagli in una storia unica, magica, talmente bella da non crederci. Ed io che quei diciannove anni ho avuto la fortuna di viverli tutti al tuo fianco so che sono una privilegiata.

Dall’eurogol con la Fiorentina a quella notte incredibile a Roma, dalla magia contro il River Plate al nome di Summer che primeggiò ingiustamente anche davanti al tuo, dal gol alla De Piero al titolo di capocannoniere, dai mister che non ti hanno capito, alle critiche di chi ha trovato il coraggio di mettere in discussione persino un talento come il tuo, dalla standing ovation del Bernabeu a quella prima linguaccia contro l’Inter, dalla rete con la Germania alla sfida con il Frosinone, dalla punizione con la Lazio a quel 13 maggio…Torino si ferma e piange.

Del Piero, eterno esempio di una vita spesa per un sogno

Il giro di campo, io incredula davanti alla televisione, lacrime, lacrime, lacrime, uno come Del Piero nasce una volta ogni 150 anni, ecco perché quelle 19 stagioni valgono di più, almeno il doppio, soprattutto se sei una bambina innamorata del calcio che, guarda le coincidenze, ti ha scoperto all’età di 9 anni il giorno del suo compleanno, e nel giorno del suo compleanno di tanti anni dopo ti ha visto mettere il punto in fondo ad un libro fatto di due soli colori, il bianco ed il nero.

Sempre presente nei successi e nelle cadute, nella luce e nei giorni bui, lì, più vicina di quanto non mi sia mai accorta e di quanto tu stesso possa credere: ecco perché farti gli auguri è qualcosa di naturale, è semplicità, è come cercare sulla rubrica il numero di un amico che non senti da un po’ e per questo avere ancora più piacere nel fargli gli auguri.

Happy birthday Alex Del Piero, compagno di una delle parti più belle della mia vita, esempio indiscusso e fondamenta dei valori in cui più credo, inarrivabile leggenda bianconera. 

 

Ho visto Del Piero – CLICCA QUI 

Io c’ero – CLICCA QUI

 

Leggi anche –> Seven Up and down: la mia settimana in 7 top e flop

 

 

Piazza San Carlo

Piazza San Carlo, in quella notte, mi ha cambiato la vita. Forse lo ha fatto in tutti i sensi che si possono immaginare o forse lo ha fatto anche oltre l’immaginabile.

I dettagli di una notte di paura sono piccolissimi ed infidi, e si infilano nei pensieri all’improvviso, quando meno te lo aspetti, e pungono sulle ferite rimarginate ma ancora sensibili, per sempre sensibili.

Sono passati tre anni esatti da quella notte di paura ma tutti i dettagli sono ancora lì, non hanno cambiato posto, hanno trovato collocazione ed hanno la stessa identica forma ben definita.

I dettagli fanno sempre la differenza, nel bene e nel male. 
I dettagli valgono tutto.
I dettagli ti cambiano la vita.

Diverse volte ho rivisto quelle immagini ma quando schiacciavo play chiudevo gli occhi e mi ritrovavo immersa in quello stesso caos; oggi ho allineato dei video con i miei ricordi e niente, non c’era niente di diverso. Lo stomaco si fa piccolo ma gli occhi restano spalancati, non tremano più, resta solo quella consapevolezza che Piazza San Carlo, mille e novantasei giorni fa, mi ha cambiato la vita. E mi ha reso più forte.

Qui di seguito i resoconti di quella stessa notte a pochi giorni di distanza e di “quella notte” 365 giorni dopo.

_________________________________________________________________________

Il resoconto di quella notte un anno dopo (2018)

Inutile nascondersi: certe cose ti segnano, e ti segnano per sempre. Un anno fa lottai in piazza San Carlo a Torino per tenermi stretta questa vita ed il ricordo di quegli istanti, il ricordo di quella notte, mi creano uno sgomento che non pensavo potesse mai arrivare a toccare me. Ed invece, coinvolta a pieno regime, con paure che forse non mi abbandoneranno mai, con paure con cui convivi e che, però, ti aiutano anche a capire i tuoi limiti e a spronare te stessa per oltrepassarli. Il punto è che certe cose non fanno solo male, certe cose faranno male per sempre, le cicatrici restano cicatrici ma guardandole da un’altra prospettiva quei segni non sono ricami dell’anima?

Le mie mani e la mia mente si rifiutarono di mettere insieme i pezzi per un po’ ma cinque giorni dopo riuscii a partorire questo pezzo per dare testimonianza di un 3 giugno che sarà sempre un sogno infranto al pari di un ricamo che ha saputo rendere la mia anima un po’ meno bella ma certamente più forte.

Ringrazio ancora sportface.it che mi diede quest’opportunità.

—————————————————————————————————————————

Piazza San Carlo, il resoconto della paura (2017)

E’ stato uno strano lunedì quello della scorsa settimana, un lunedì tra un mix di malumori, incomprensioni e scadenze pressanti, un lunedì di quelli che ti fa maledire la fine del weekend, un lunedì vero e proprio insomma. Ecco perché quella sera accovacciata sul mio divano e con il mio amato mac fra le mani, cercavo qualcosa che mi facesse un po’ distogliere l’attenzione dai mille pensieri che mi frullavano nel cervello, che mi desse una scossa. Cercavo senza sapere dove posare realmente gli occhi fin quando sono stati gli occhi stessi a trovare luce.

“Maxischermo in piazza San Carlo a Torino con piattaforma riservata a giornalisti e addetti stampa”, avevo letto sul web. Un brivido lungo la schiena, avevo già capito, la mia mente aveva già fatto un salto lungo circa 150 km, il mio cuore non aveva neanche saltato, era già là. Dovevo provarci e riuscirci. Sono partite circa 30 mail dal mio computer quella sera, trenta mail che hanno quasi tutte trovato risposta: “Ci mandi i suoi dati e le faremo sapere”, manco avessi presentato una canzone per il festival di Sanremo.

Poco meno di 48 ore dopo, la risposta attesa da tutta una vita: “Il suo accredito è stato accettato, ci vediamo sabato, buon lavoro”. Mezz’ora di salti incontrollati ed una svariata serie di note vocali alla collega che avrebbe vissuto con me quella medesima esperienza.

“Daniele vado a Torino sabato, chiedimi quello che vuoi”, la conferma più piccata ad un pezzo della famiglia Sportface. Già lo so, starete pensando questa è pazza, e in fondo normale non lo sono mai stata, ma io amo la mia follia, la sola, insieme a questa perseveranza e a questa smisurata passione, che mi permetta di raggiungere ciò che ho sempre sognato o molto più banalmente di fare ciò che amo di più, in spicci, di essere felice.

I convenevoli ve li tralascio: l’attesa, la cura maniacale nel preparare lo zaino e gli attrezzi del mestiere, l’ansia a diecimila, l’euforia di poter essere in mezzo ad un popolo di 30 mila persone che condividono i tuoi stessi colori e di poterlo fare da un posto privilegiato, quello di giornalista, l’adrenalina di poter scrivere della tua squadra del cuore che per l’ennesima volta si gioca il “tutto in una notte”, l’orgoglio di esserci, i pezzi del puzzle che d’improvviso s’incastrano ed un sorriso quasi spavaldo di fronte a quel lunedì nero che sembra d’un tratto così lontano. E poi il viaggio, la bandiera che sventola, i cori su cori e su cori. Ribadisco: lo so che sono pazza e che non mi capirete, ma non sono qui per questo. Io non voglio essere capita per ciò che faccio o ciò che provo quotidianamente, vorrei essere capita per ciò che ho sentito in quella lunga notte.

Piazza San CarloPerché tra un flash, una battuta, uno scambio d’opinioni, gli scongiuri verso un cielo grigio, una diretta facebook, perché tra un gol di Cristiano Ronaldo ed un gol di Mario Mandzukic erano circa le 21.45 quando quell’ultimo scorcio di stagione ha preso avvio. La Juve non gira, il centrocampo è lento e si è abbassato troppo, la difesa pare meno solida del solito, Higuain è così fuori dal gioco e poi c’è il talento cristallino di uno su cui ho scommesso non appena l’ho visto calciare un rigore con la maglia rosa del Palermo, ha 23 anni, si chiama Paulo Dybala e questa sera pare imprigionato nelle sue stesse paure.

Casemiro e Ronaldo fanno il resto ma proprio quando cerchi conforto nei tuoi fratelli bianconeri,quando il tuo sguardo si scontra con il silenzio assordante di un’intera piazza che non riesce a spiegarsi il perché ancora una volta, sul più bello, tutto sfumi, ecco che quel silenzio si tramuta in un rumore che sa tanto di spari, ecco che il cuore ti si ferma e che la mente vola non a 150 km di distanza ma là dove non pensi possa esistere vita.

Una frazione di secondo, una folla impazzita che sta correndo proprio nella tua direzione, lo sforzarsi di trovare una lucidità che non fa capolino nel tuo cervello ma che, grazie a Dio, non soffoca quell’istinto di sopravvivenza a cui ti aggrappi come se fosse l’ultimo brandello di vita. Lo zaino in spalla e la mano della tua collega che hai afferrato e trascinato il più lontano possibile: non c’era tempo per le domande, c’era da correre.

Circa 400 metri di corsa disperata evitando di calpestare la gente a terra e provando a non scontrarti con nulla, quelle mani che si disuniscono per un attimo, ma gli occhi che non si perdono e le dita nuovamente intrecciate. Il riparo sicuro è quello di un bar in cui ti fermi e ti ritrovi accerchiata di persone che hanno sangue ovunque, che urlano e piangono e non sanno il perché. “Una bomba, hanno sparato, arrivano” ed il terrore a quel punto trova spazio in un bagno in cui gli affanni di un respiro trasalito rimbombano a più non posso. E adesso cosa facciamo? Potevo lasciare che la paura di morire avesse la meglio sulla voglia di vivere? Noi, fratelli sconosciuti, ci siamo abbracciati, abbiamo condiviso il terrore e, quando abbiamo ripreso a respirare, l’umanità.

Ho visto gente che si consolava senza sapere cosa dire e chi avesse davanti, ho visto ragazzi infermieri in borghese bianconera, prendersi cura del prossimo ferito, ho visto gente che predicava calma, bambini accolti da mamme improvvisate ma oneste, soccorsi pronti e polizia attenta, cellulari prestati perché sopportare anche che le proprie famiglie piangessero sarebbe stato troppo. Ho rivisto quello scenario di una piazza devastata, perché c’era da recuperare la borsa della tua amica che lì dentro aveva anche le chiavi della macchina e che, nuovamente grazie a Dio, dopo poco era come un miraggio fra le tue mani, e ho capito che la guerra era passata di lì. C’era d abbandonare Torino, la città dei tuoi sogni, e c’era quello sgomento nel cuore che non si dava pace e che ti impediva anche di capire quanto i miracoli esistessero, quanto tu stessa fossi un miracolo.

Piazza San CarloIl ritorno a casa e la notte insonne pensavo facessero il resto, mi sbagliavo. Il resto lo hanno fatto gli occhi e le mani di mio padre e mia madre, dei miei fratelli, che sono stati la mia ancora di salvezza in quel mare in burrasca. Non potevo permettere a nessuno di non farmeli vedere più, di non riassaporare più i loro profumi, di non alimentarmi dei loro sorrisi. Io non so a cosa hanno pensato quelle trentamila persone, io so che ho pensato a loro ed è così che mi sono salvata.

Ma ancora non era finita e forse questa storia non avrà una fine. Quando ho rivisto le immagini il giorno dopo, quando le parole hanno trovato una collocazione di senso compiuto, quando i milioni di messaggi che i social ed il mio cellulare mi hanno recapitato ribadendomi che fossi più viva di quanto in realtà credessi, ho trovato anche tutte quelle lacrime che fino a quel momento non avevo ancora versato.

Ed eccole le domande che arrivano puntuali come una sentenza. E non sono né i perché, né da dove è nato tutto ciò, niente del genere, le domande che mi hanno martellato il cervello erano che fine avessero fatto tutti i disabili che avevo attorno, gli stessi che avevo difeso poco prima non appena la gente si era messa nella loro traiettoria impedendogli di vedere la partita; che fine avesse fatto quella signora tanto simpatica con cui avevo condiviso le ansie da Champions dal pomeriggio, che fine avesse fatto quel giornalista tanto carino dagli occhi azzurro cielo, e ancora di più dove fosse quella bimba che si era seduta accanto a me pochi istanti prima del triplice fischio, che mi aveva chiesto in che porta dovessimo segnare e che al gol di Mandzukic mi aveva stretta così forte come se mi conoscesse da sempre o come se volesse donarmi un pezzetto del suo piccolo grande cuore. Ho pregato per loro, spero che Dio mi abbia ascoltato anche questa volta.

Adesso arriva il bello. Sognavo di scrivere il mio primo articolo sulla mia Juventus in modo totalmente diverso, sognavo di commentare di un Gigi con la coppa al cielo, sognavo di raccogliere le emozioni di quel popolo così tanto simile a me. E sognavo anche di piangere mentre digitavo ogni singola lettera su questa tastiera. Sognavo di avere il cuore a mille, proprio come adesso. Ecco perché so che un giorno sarò di nuovo lì, perché che sono folle l’ho già detto? Non mi lascerò vincere dalla paura. Ci vorrà tempo? Ci vuole sempre tempo. Non ho mai visto sogni realizzarsi con il solo schioccare delle dita.

L’amore conta, conosci un altro modo per fregar la morte?

E a tutti questi sogni se n’è aggiunto uno: mi piacerebbe guardare negli occhi quel talento cristallino con il numero ventuno sulle spalle e mi piacerebbe che ci scambiassimo un po’ di paure. Così diverse e in fondo così uguali. Lui e la paura di accarezzare un pallone in quel di Cardiff, io e la paura di non poter più sentire sussultare il mio cuore come quel 13 maggio 2012 quando cambiai la mia foto di copertina su facebook lasciando che lo sguardo dell’uomo più uomo e campione più campione che conosca si commuovesse dinanzi al tributo più meraviglioso mai visto. Il nesso è così semplice ed immediato tra  due. Ecco, vorrei anche questo dalla mia vita. Perché se c’è una cosa che ho imparato da questa tremenda vicenda è che l’amore vince sempre. E allora che vi siate aggrappati a chissà quale pensiero in quegli istanti, all’amore per i vostri figli o per i vostri compagni, per i vostri amici, per le vostre madri, per voi stessi o a Dio, non fa differenza: non lasciatevi vincere dalla paura, lasciatevi vincere dall’amore.

 

video champions_5

Da quando Senna non corre più...non è più domenica, non è più velocità, non è più formula uno…

ayrton senna

Ventisei anni dopo…quel rombo non è stato più lo stesso. La tv la domenica pomeriggio si è spenta un po’ ovunque, troppi cuori quell’adrenalina non l’hanno mai più riprovata. Zitti tutti c’è Senna, e già sapevi che sarebbe stato spettacolo.

I duelli non sono mancati, è vero, l’era Schumacher chi se la scorda, e poi Alonso, Hakkinen, Villeneuve, gli italiani mai sbocciati fino in fondo, il cuore di Jean Alesi, Damon Hill, Felipe Massa e quella piccola vicenda con Glock, piccola e misteriosa per dirla tutta, fino ai giorni un po’ più nostri, con il comandante Hamilton e a seguito tutti gli altri.

Non ultimo Charles Leclerc che ha riportato speranza, una marea rossa in una Monza assopita da troppo tempo, ed un cavallino a trottare come non lo si vedeva da tempo, da tanto tempo.

Di cose ne abbiamo viste tante, e di tutti i colori, ma come Ayrton Senna probabilmente no, e probabilmente così non ne vedremo più. Unico, nel guidare ed in tutto il resto, una tenacia vivida ed uno stile inconfondibile, inimitabile. Il più grosso rimpianto della sua carriera, o forse di noi appassionati che ci speravamo, fu certamente non vederlo dalle parti di Maranello, con un’auto rossa che gli avrebbero cucito appositamente addosso e che avrebbe certamente portato col muso davanti a tutti, sotto quella bandiera a scacchi.

Voleva assolutamente venire qui” ha dichiarato Montezemolo in una recente intervista…

Quella Ferrari non è mai stata sua, ma lui si è preso molto di più. Si è preso un posto in cima alla lista, si è preso uno spazio inarrivabile, si è preso la magia di chi lo ha sempre guardato con occhi diversi, il tempo e la mente di chi quella tv, la domenica pomeriggio, non l’ha più riaccesa.

Ventisei anni non bastano per sbiadire i ricordi, l’indelebile non si cancella…verranno nuove epoche, ed in ogni nuova epoca ci sarà sempre un po’ di Ayrton Senna, quel campione leggendario senza tempo dal tragico destino.

Leggi anche:

ON THIS DAY – Ayrton Senna 2019

 

 

 

 

Novanta minuti, gli ultimi novanta minuti.

novanta minuti

È notte fonda. L’aperitivo con gli amici ed il posticipo del sabato, poi a nanna presto che domani si gioca. Il solito messaggio sul gruppo whatsapp “Qualsiasi cosa accada, Insieme per i nostri novanta minuti, forza Leoni“, scudo di un’ansia che avanza a passo svelto e che si prende buona parte dei respiri.

Sveglia puntata, anche se come ogni domenica o quasi sarai solo li attenderla. Occhi chiusi, ma non si dorme. Tiri le coperte, ti giri, ma niente. Un bicchiere d’acqua, forse la pizza era un po’ salata. Ma la scena di quella testa appoggiata su un cuscino scomodo, degli occhi sbarrati che questa notte sanno solo perdersi in un buio mai stato così profondo, è la stessa nella camera di tutti.

Ti ricordi dell’andata, del gol mangiato nel recupero, di quanto era tosto quell’attaccante da marcare, dell’abbraccio al tuo portierone dopo un volo plastico che ha salvato tutto, della cazziata del capitano a fine primo tempo, degli occhi di papà quando il mister ti ha scelto e tu, alzandoti dalla panchina, hai avuto bisogno di sapere che sarebbe andata bene.

Sonnecchi un po’, ti risvegli qualche ora dopo pensando sia già mattino, ma niente, manca ancora troppo. Guardi l’ora sul telefono, sfogli qualche storia su Instagram, controlli i messaggi…

Mentre la luce si fa spazio tra gli spiragli di una persiana rotta e che più e più volte ti sei promesso di sistemare, mentre il cane è già arrivato a cercare coccole, noti lo smartphone che si illumina “Ehi, io sono già sveglio, che dici tra mezz’ora al solito posto?“. Non aspettavi altro. L’acqua fresca sul volto nella speranza di nascondere una notte insonne, ti infili la tuta, 5 minuti e sei al bar. Le strade sono ancora deserte, i tavolini mezzi vuoi. Un caffè, spremuta, brioche e la Gazzetta tra le mani.

novanta minuti

 

Di fronte a te il compagno di 30 colazioni su 30, ogni domenica, sempre lì, come se lì ci fosse il vostro fischio d’inizio. Basta uno sguardo per capirvi, le ore di sonno le contate sulle dita di una mano, si parla di tutto ma non di quello che sarà. Vorresti dirgli che ti tremano le gambe, che senti il peso dell’attacco sulle tue spalle, che la caviglia è ancora indolenzita…lui vorrebbe risponderti che la vede dura, che all’andata quel numero dieci lo ha fatto impazzire, che forse sarebbe meglio partisse dalla panchina e che magari lo dirà al mister appena arrivato al campo…

…ma niente, non vi dite niente, e sapete già tutto. La battuta si sposta sulla cameriera del bar, solo per sdrammatizzare un po’, le bionde in realtà non ti sono mai piaciute. Pacca sulla spalla e si va. “Ci vediamo dopo, passo a prenderti?” “No tranquillo, vengo con la mia“. Ci sono quelle tre canzoni da ascoltare nel tragitto casa – campo, non puoi perdertele nell’ultima domenica.

Il pranzo è sempre lo stesso, lo stomaco in realtà è chiuso. Tua madre ha fatto la crostata solo per te, ma riesci a sbuffare comunque, lei sa il perché: il countdown nella tua testa è già partito, la tensione si fa sentire. Controlli il borsone un paio di volte, poi saluti tutti “Babbo ci vediamo al campo“, mentre mamma rimarrà lì, non troppo attaccata al telefono, nella speranza che non suoni mai, e con il solito messaggio delle 15.15 per papà…”Tesoro, quanto stanno?“.

In macchina ti scende una lacrimuccia mentre Ligabue canta “Lì, sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai stai lì“. È la prima del trittico di canzoni. Poi ti dai la carica, alzi il volume e non senti più nulla. Parcheggi, qualche minuto d’anticipo. C’è il tempo per una battuta con la signora del botteghino all’ingresso: “Dacci dentro bomber” ti esclama e ti fa l’occhiolino, ricambi.

Varchi il cancelletto davanti agli spogliatoi, dai un’occhiata timida al campo, il signore dei palloni ti guarda e te lo sussurra appena “Wè bomber, devi buttarla dentro oggi”, vaglielo a spiegare che non hai dormito un cavolo e tutto il resto. Il pres ti dà una pacca sulla spalla, “Già sai…” e non aggiunge altro, lui la conosce la tua scaramanzia, grande come quella fascetta che ti leghi al polso, come il mettere prima la scarpa sinistra o l’entrare in campo su un piede solo.

novanta minuti

 

Poi varchi la porta dello spogliatoio, incroci gli occhi dei tuoi compagni e lì c’è la prima botta di adrenalina. Ti cambi al solito posto, il ds entra a dettarvi i tempi, dieci minuti e siete tutti in cerchio sul retro del campo. Il mister dice due cose e dà la formazione, più volte ribadisce quel dentro o fuori che pare la spada di Damocle sulla testa. Il riscaldamento va via liscio, il “ghiaccio” inizia ad avere qualche crepa, provate un paio di punizioni e non becchi la porta. Insomma, non si mette benissimo.

Mentre tornate negli spogliatoi incroci un paio di ex compagni oggi con la casacca opposta alla tua, pronti a vendere cara la pelle, proprio come te. Poi tutti di nuovo dentro, c’è il discorso del mister. Seduti su quelle panche vi sentite quasi inermi, sopraffatti da una stagione che ormai è al capolino. Nella tua testa scorrono le immagini di tutti questi mesi e ti rendi conto di quanto manchi al traguardo. Il tuo film in realtà è quello di tutti. I ventitré gol messi a segno fino ad oggi sono un bottino che ti fa andare orgoglioso della tua annata, ma non ti gratificheranno abbastanza se all’appello dovessero mancare quelli di questi novanta minuti. Forse non te lo perdoneresti mai, a patto che, sì insomma…il bene della squadra viene sempre prima.

C’è la chiama dell’arbitro.

Prima di uscire ci pensa il capitano a dire la sua, come sempre. Vi chiama leoni, vi chiama fratelli, vi spinge a dare il massimo anche oggi, soprattutto oggi, per quei maledettissimi novanta minuti e lo fa come solo lui sa fare, colpendovi dritto al cuore. Pensi: “Cazzo che fortuna ad avere un capitano così, se un giorno dovessi avere quella fascia al braccio, vorrei essere come lui…“. Vi abbracciate, eccolo qui l’abbraccio più bello del mondo. La convinzione di tutti è che dentro quell’abbraccio non vi succederà mai niente.

Si spalanca la porta ed è un attimo. C’è la foto di rito, ti distrai e sbirci in tribuna, quest’anno non l’avevi mai vista così gremita, la fortuna di giocarsi tutto in casa. Controlli che le scarpe siano allacciate strette, poi metti il primo piede sul prato verde, e cambia tutto. La paura sta lasciando il posto ad un’adrenalina incredibile. Il tragitto fino al centro del campo non ti è mai sembrato così lungo, quasi più lungo di quei novanta minuti lì davanti a te. In riga aspettate il via, saluti il pubblico, ti scambi il cinque con i compagni e ti prendi ancora qualche incoraggiamento. Papà è al solito posto, fiero. 

novanta minuti

 

Chiudi gli occhi per un attimo, li riapri e guardi il cielo, e al cielo affidi i tuoi sogni. Il sogno di un playoff o di un titolo, il tuo primo titolo, il sogno di un playout che allontana una retrocessione diretta, il sogno di una salvezza insperata, o di una posizione a metà classifica che sarà banale solo per gli altri, il sogno di un gol che aspetti da mesi o del riconoscimento di capocannoniere, il sogno di una manona al posto giusto al momento giusto, o dell’assist che cambia la partita; il sogno di non sbagliare gli undici e di azzeccare i cambi, di trovare le motivazioni giuste e di poter esultare con i tuoi ragazzi.

Il sogno di veder i sacrifici ripagati, la tua società nella posizione che merita, i volontari del bar stanchi di questi nove mesi ma contenti per aver dato una mano alla squadra del loro paese; il sogno di vedere quell’ingresso in campo con i bambini del settore giovanile e le tribune piene da togliere il fiato.

Il sogno di scrivere l’articolo perfetto, di non sbagliare le pagelle, di saper trovare le parole giuste per raccontare quella miriade di emozioni che in realtà ti è piombata addosso già al mattino appena sveglio, quando le farfalle nello stomaco avevano già fatto il girotondo e quando l’incipit del pezzo ti è venuto fuori mentre le mani tremavano dall’ansia…il sogno di un’intervista in cui gli occhi di chi sta dall’altra parte del microfono riescano ad imbattersi nei tuoi, a trovare appiglio proprio lì, e poi conforto, comprensione, gioia, e tutto ciò di cui abbiate vicendevolmente bisogno, forse rispetto, forse gratitudine, forse amore.

Qualunque sia il tuo sogno, riapri gli occhi, tiri un sospiro di sollievo, il frastuono dei cuori che battono all’unisono pare l’inno alla gioia.

Guardi il pallone.

Novanta minuti, gli ultimi novanta minuti.

Fischio d’inizio.

Sì, sono pronto.

 

Carolina Kostner potrebbe far rima con tenacia, forza, leggiadria, farfalla bianca. Qualunque aggettivo le si abbini la porte comunque ad indossare lo scettro di Regina del Ghiaccio, ecco perché ho scelta lei come secondo appuntamento di “One Shot Sport”.

Carolina Kostner

One Shot Sport

Nata a Bolzano, l’8 febbraio 1987, ha intrapreso la carriera di pattinatrice artistica su ghiaccio ad appena 4 anni, forse solo sognando i traguardi raggiunti poi negli anni a venire. L’apice nella sua carriera racconta, per ben due volte, di una regina del ghiaccio che brilla più di tutte, che ammalia, che incanta e scioglie persino i dubbi. Non che il resto della sua carriera l’abbia mai vista troppo lontana da podi, anzi, il suo palmares conta oltre 30 medaglie conquistate nelle gare più prestigiose.

Nel 2012, o meglio il 31 marzo 2012, esattamente 8 anni fa, dopo la consacrazione europea e qualche caduta, c’era da spingere un po’ oltre; ma spingere sul ghiaccio al 99% comporta rovinose cadute, scivoloni che valgono più di una sbucciatura sul ghiaccio. Eppure Carolina non ha tremato e a Nizza, all’età di 25 anni, si è regalato una sogno: diventare la più grande pattinatrice artistica del mondo.

Ma la vita di un’atleta ha quel grande cruccio che inizia per O e finisce per Limpiadi, come non poter raccontare di un podio olimpico dia meno valore anche a tutto il resto. Non è così, ma non si può negare quanto quell’emozione e quel traguardo abbiano tutto un altro sapore. Mentre qualcuno le chiedeva a gran voce un medaglia già nel 2010, la regina di Bolzano ha saputo aspettare il momento giusto, e non lo ho gridato quel successo, lo ha sussurrato in quel di Sochi appena quattro anni dopo.

Carolina Kostner a mani giunte sul ghiaccio di Sochi

Carolina Kostner

A mani giunte in un’Ave Maria di Schubert che l’ha vestita di bronzo, ha alzato gli occhi verso il cielo e ha ringraziato Dio del dono di cui è stata privilegiata, mentre una platea ed una nazione intera s’inchinavano, ringraziando lei di non avercene privato, di non aver mollato, di aver creduto che quel dono fosse degno degli sguardi commossi di chi, sognante, si è lasciato trascinare sulle nuvole, mano nella mano, con la regine del ghiaccio.

La gratitudine di quegli occhi in quell’assolo era più pura del ghiaccio che pareva subire il solletico di due lame leggiadre, intente a lasciare tracce di un talento che equivaleva alla bacchetta magica di una fatina e che quello che sfiora, trasforma. In carrozza come quella famosa zucca? No, di più, molto di più, in poesia, pura poesia. E questa è una delle poesie dalle rime baciate più incantevoli che io conosca.

Il resto, il resto è storia.

Carolina Kostner e il sogno Cortina

Carolina Kostner

“Non amo piangermi addosso – prosegue Kostner – ho un carattere tale per cui voglio affrontare i problemi, superarli e trovare delle soluzioni. Ed è quello che ho fatto, mi sono rimboccata le maniche e penso che chi mi ha seguito in questi anni ha capito che non sono una persona che si arrende facilmente”. Incalzata poi dal conduttore aggiunge: “Dopo una vita passata a lottare per il successo in modo pulito, con dedizione e sacrificio, senza mai prendere nessuna scorciatoia è stato difficile giustificarmi, anche se avevo la consapevolezza di non avere avuto mai niente a che fare con il doping. È stato un periodo molto duro – ammette – ma ora è passato. Certo, in quella circostanza, come qualunque donna mi sono sentita delusa, arrabbiata ma oggi con onore posso dire che sono testimonial della Wada” (fonte sportfair.it)

E poi la butta lì, proprio come quella famosa notte a Sochi con quella bacchetta magica.

“Quello che è sicuro è che non appendo i pattini al chiodo: sogno di continuare a condividere le mie emozioni sul ghiaccio con le persone, a prescindere che si tratti di una gara, di un’esibizione, di altri progetti in cantiere o di Cortina 2026, anche se l’idea di rivivere un’Olimpiade nel proprio paese – confessa – è bellissima”.

Già sarebbe bellissimo, poetessa in patria.

One shot sport – Fabrizio Donato 

 

foto carolina-kostner.it

 

Fabrizio Donato: è lui il primo protagonista di “One Shot Sport“, un nuovo angolo del mio sito che almeno in questo periodo ho deciso di dedicare alla mia più grande passione, (lo sport, lo avreste mai detto? 🤔😂).

Fabrizio Donato

In giorni in cui tra mille priorità lo sport slitta in secondo piano ma solo dal punto di vista visivo, (non pratico e non trovate scuse perché con tutti i tutorial che ogni giorno troviamo in rete scoprendo che pure il panettiere di fiducia ha un fisico alla Filippo Magnini, bastano un paio di bottiglie d’acqua per volteggiarsi alla Vanessa Ferrari), bisogna a volte aggrapparsi alla nostra memoria per trovare pezze che chiudano i buchi nella coperta della nostalgia.

One shot sport

Fabrizio Donato

Ed in questo caso, non so nemmeno io perché, ho deciso di partire da una pezza di bronzo. Piccola premessa: io sono una di quelle che su YouTube scova i video più impensabili, tipo visualizzazioni tre e sono tutte e tre mie con tre account diversi. Perché essere appassionati di calcio, sport che Dio solo sa quanto io ami, non significa snobbare tutto il resto, anzi. È una passione troppo viscerale e profonda per lasciarsi condizionare da un unico gesto, da un’unica disciplina. Ecco perché la decisione Olimpiadi nel 2021 (giusta sia chiaro) mi ha spedito nell’angolino a piangere.

Ma siccome senza sport non so stare, dopo aver fatto la scorta dell’acqua per gli esercizi in cortile, sono tornata lì, proprio su YouTube. E niente, fra le lacrime, perché ogni volta mi commuovo come se la gara fosse in diretta e soprattutto come se non sapessi l’esito, ho scelto di partire da Fabrizio Donato. Fabrizio Donato è un triplista italiano che vanta, fra le altre, 4 medaglie europee (di cui 2 d’oro) e un magnifico bronzo olimpico.

Fabrizio Donato e quella sabbia di bronzo

Fabrizio Donato A Londra con quel 17.48 cm la sabbia si colorò di bronzo e l’urlo liberatorio che ne seguì è una di quelle scariche di adrenalina che andrebbe vista e rivista prima di ogni impegno di vita quotidiana, è una botta di vita. Persino andare dal dentista potrebbe risultare “na passeggiata di salute” con quella “corazza addosso”.

Ma se questo è stato l’acuto di una carriera lunga 25 o forse 30 anni, la cosa che più stupisce e che più ammiro di Fabrizio Donato è l’essere esploso a 33 anni. Quando tanti pensano che la via del declino sia lì ad un passo, salta fuori lui, un ragazzotto ultra trentenne che decide di entrare nel mondo dei grandi. Ed il mondo dei grandi si accorge di lui, lo accoglie a braccia aperte e decide di tenerlo lì per un po’, cullarselo, di imparare. Il mondo dei grandi si siede ad ammirarlo e aspetta. E sa che l’attesa non sarà vana.Dal 2009, campione europeo indoor a Torino, ad oggi, sono state scritte tante pagine. Eppure il libro pare non essere ancora finito.

Il futuro passa da qui

Fabrizio Donato

Quando parlo di 25 o 30 anni di carriera, parlo di un classe ’76 che non ha ancora messo un punto, e se poi mi imbatto in un video come questo (clicca QUI) mi rendo conto dell’incertezza di un futuro che però continua a sorridere. E continua a sorridere perché c’è speranza, perché c’è volontà e perché c’è un cassetto che, una volta aperto, ti spara in faccia una luce che abbaglia e che nutre. Forse acceca a tal punto da non lasciar intravedere quale sarà la strada giusta ma la luce, pur nel dubbio, permette comunque di correre, il buio concede una stenta camminata che non troppo lontana dai burroni.

C’è un corpo che parla, una mente che sussurra ed un cuore che fa da trait d’union. Se la domanda è: “Un altro anno di sacrifici, per chiudere una carriera magnifica con la sesta olimpiade all’età di 45 anni?…“, la risposta…beh la risposta è QUI, perché a prescindere da quello che sarà, tutto questo non lo cancellerà mai nessuno.

La fortuna non è altro che la fusione tra le occasioni e la grande preparazione“.

foto FIDAL COLOMBO/FIDAL