Gianluca Vialli, uno di noi: buon viaggio capitano di quella notte magica
Descrivere Gianluca Vialli è così difficile ed allo stesso tempo è così semplice. Faccio fatica a trovare il filo conduttore di quelle emozioni nate ad Italia ’90, passate per la notte juventina più magica di sempre, rivissute in una veste diversa, inaspettata, sconvolgente, a Wembley, un paio di estati fa.
Oggi i social si riempiono di cordoglio, di ammirazione, di elogi, all’uomo, al Campione, all’amico, al padre, al marito, all’allenatore, e c’è chi menziona gli occhi di un ragazzino che giocava sui campi degli oratori di Cremona, c’è chi dice che quegli occhi, quello sguardo non lo abbia perso mai.
Mi perdo via nel leggere i commenti di chi “sa tutto” di questa malattia infame, di chi crede ci sia un giusto e uno sbagliato nel modo di viverla ed interpretarla, e di chi pretende anche di sapere come sia dovutamente necessario raccontare il dolore. No, io non credo sia così. In un mondo di leggi che tengono in gabbia persino le intenzioni, voglio ancora pensare che di fronte ai sentimenti, e al libero arbitrio, non ci siano regole. Tutto ciò che condanno è l’ostentazione.
Gianluca Vialli era uno di noi. E lo era perchè ha trovato sempre il suo modo di vivere le cose. Ha trovato la grinta di ribaltare le partite, ha trovato l’estro di una rovesciata un po’ folle, quella dove se la sbagli prendi insulti dai compagni perchè “Bastava una roba semplice”, ha trovato il conforto nell’abbraccio di un fratello quando il destino era già segnato, ma più di tutto ha tenuto intatta la dignità di un Uomo alle prese con un dolore ingestibile, ingiusto, contraddittorio, sconfinato. Perchè? Ci si chiede così tante volte, perchè…lasciando che questa domanda irrisolta tolga il tempo di perdersi nei respiri che contano davvero, nelle emozioni del “qui e subito”.
Ho un frame nella testa ora: la felpa che indossava Vialli in quel 22 maggio 1996. Che c’entra direte voi…
Ecco, nel volto di Jugovic la strada per la gloria distante appena undici metri, negli occhi del capitano, il coraggio di un uomo che dice “Vai avanti tu, non ce la faccio”. Gianluca Vialli non avrebbe tirato alcun rigore in quella notte, probabilmente non se la sentiva, proprio lui che con il suo carisma aveva trascinato la squadra fino agli ultimi novanta minuti di un percorso epico. Una strada lunghissima compiuta alle spalle e di fronte, invece, appena undici metri. Juventus – Ajax finì 5-3 dopo i calci di rigore. Ferrara, Pessotto, Padovano e poi Jugovic. Infallibili. Il resto lo fece Peruzzi respingendo al mittente due penalty. Non ci fu bisogno dell’ultimo tiro che probabilmente sarebbe spettato a Del Piero. Ma non a Vialli, non al capitano. Lui aveva già la felpa, la sua corazza.
Vialli è l’elogio alla debolezza, con una felpa addosso o con tre maglioni sotto la camicia per nascondere i segni di una lotta continua, non fa differenza. Vialli è un bimbo grande che piange davanti a tutti e non si vergogna nel farlo è colui che dice: “Non è vero che il cancro è il grande nemico da sconfiggere, non è una lotta per uccidere lui, ma è una sfida per cambiare se stessi”.
E ancora: “Ho meno tempo per essere da esempio, adesso so che non morirò di vecchiaia. In questo senso cerco di essere un esempio positivo insegnando ai miei figli che la felicità dipende dalla prospettiva con cui guardi la vita. Ridere spesso, aiutare gli altri: questo è il segreto della felicità”.
Buon viaggio Capitano. Grazie per avermi regalato una delle notti più indimenticabili della mia vita. Mio padre mi disse: “Andiamo in piazza a festeggiare, Mary vieni anche tu?”. Quella bambina che il giorno dopo andò a scuola con i segni sul volto di una notte insonne, non aspettava altro.
Il 22 maggio 1996 me lo ricorderò per sempre, e per sempre te ne sarò grata.
Ciao Luca, ciao bomber.
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