Gli ultimi novanta minuti di una domenica che non c’è
Novanta minuti, gli ultimi novanta minuti.
È notte fonda. L’aperitivo con gli amici ed il posticipo del sabato, poi a nanna presto che domani si gioca. Il solito messaggio sul gruppo whatsapp “Qualsiasi cosa accada, Insieme per i nostri novanta minuti, forza Leoni“, scudo di un’ansia che avanza a passo svelto e che si prende buona parte dei respiri.
Sveglia puntata, anche se come ogni domenica o quasi sarai solo li attenderla. Occhi chiusi, ma non si dorme. Tiri le coperte, ti giri, ma niente. Un bicchiere d’acqua, forse la pizza era un po’ salata. Ma la scena di quella testa appoggiata su un cuscino scomodo, degli occhi sbarrati che questa notte sanno solo perdersi in un buio mai stato così profondo, è la stessa nella camera di tutti.
Ti ricordi dell’andata, del gol mangiato nel recupero, di quanto era tosto quell’attaccante da marcare, dell’abbraccio al tuo portierone dopo un volo plastico che ha salvato tutto, della cazziata del capitano a fine primo tempo, degli occhi di papà quando il mister ti ha scelto e tu, alzandoti dalla panchina, hai avuto bisogno di sapere che sarebbe andata bene.
Sonnecchi un po’, ti risvegli qualche ora dopo pensando sia già mattino, ma niente, manca ancora troppo. Guardi l’ora sul telefono, sfogli qualche storia su Instagram, controlli i messaggi…
Mentre la luce si fa spazio tra gli spiragli di una persiana rotta e che più e più volte ti sei promesso di sistemare, mentre il cane è già arrivato a cercare coccole, noti lo smartphone che si illumina “Ehi, io sono già sveglio, che dici tra mezz’ora al solito posto?“. Non aspettavi altro. L’acqua fresca sul volto nella speranza di nascondere una notte insonne, ti infili la tuta, 5 minuti e sei al bar. Le strade sono ancora deserte, i tavolini mezzi vuoi. Un caffè, spremuta, brioche e la Gazzetta tra le mani.
Di fronte a te il compagno di 30 colazioni su 30, ogni domenica, sempre lì, come se lì ci fosse il vostro fischio d’inizio. Basta uno sguardo per capirvi, le ore di sonno le contate sulle dita di una mano, si parla di tutto ma non di quello che sarà. Vorresti dirgli che ti tremano le gambe, che senti il peso dell’attacco sulle tue spalle, che la caviglia è ancora indolenzita…lui vorrebbe risponderti che la vede dura, che all’andata quel numero dieci lo ha fatto impazzire, che forse sarebbe meglio partisse dalla panchina e che magari lo dirà al mister appena arrivato al campo…
…ma niente, non vi dite niente, e sapete già tutto. La battuta si sposta sulla cameriera del bar, solo per sdrammatizzare un po’, le bionde in realtà non ti sono mai piaciute. Pacca sulla spalla e si va. “Ci vediamo dopo, passo a prenderti?” “No tranquillo, vengo con la mia“. Ci sono quelle tre canzoni da ascoltare nel tragitto casa – campo, non puoi perdertele nell’ultima domenica.
Il pranzo è sempre lo stesso, lo stomaco in realtà è chiuso. Tua madre ha fatto la crostata solo per te, ma riesci a sbuffare comunque, lei sa il perché: il countdown nella tua testa è già partito, la tensione si fa sentire. Controlli il borsone un paio di volte, poi saluti tutti “Babbo ci vediamo al campo“, mentre mamma rimarrà lì, non troppo attaccata al telefono, nella speranza che non suoni mai, e con il solito messaggio delle 15.15 per papà…”Tesoro, quanto stanno?“.
In macchina ti scende una lacrimuccia mentre Ligabue canta “Lì, sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai stai lì“. È la prima del trittico di canzoni. Poi ti dai la carica, alzi il volume e non senti più nulla. Parcheggi, qualche minuto d’anticipo. C’è il tempo per una battuta con la signora del botteghino all’ingresso: “Dacci dentro bomber” ti esclama e ti fa l’occhiolino, ricambi.
Varchi il cancelletto davanti agli spogliatoi, dai un’occhiata timida al campo, il signore dei palloni ti guarda e te lo sussurra appena “Wè bomber, devi buttarla dentro oggi”, vaglielo a spiegare che non hai dormito un cavolo e tutto il resto. Il pres ti dà una pacca sulla spalla, “Già sai…” e non aggiunge altro, lui la conosce la tua scaramanzia, grande come quella fascetta che ti leghi al polso, come il mettere prima la scarpa sinistra o l’entrare in campo su un piede solo.
Poi varchi la porta dello spogliatoio, incroci gli occhi dei tuoi compagni e lì c’è la prima botta di adrenalina. Ti cambi al solito posto, il ds entra a dettarvi i tempi, dieci minuti e siete tutti in cerchio sul retro del campo. Il mister dice due cose e dà la formazione, più volte ribadisce quel dentro o fuori che pare la spada di Damocle sulla testa. Il riscaldamento va via liscio, il “ghiaccio” inizia ad avere qualche crepa, provate un paio di punizioni e non becchi la porta. Insomma, non si mette benissimo.
Mentre tornate negli spogliatoi incroci un paio di ex compagni oggi con la casacca opposta alla tua, pronti a vendere cara la pelle, proprio come te. Poi tutti di nuovo dentro, c’è il discorso del mister. Seduti su quelle panche vi sentite quasi inermi, sopraffatti da una stagione che ormai è al capolino. Nella tua testa scorrono le immagini di tutti questi mesi e ti rendi conto di quanto manchi al traguardo. Il tuo film in realtà è quello di tutti. I ventitré gol messi a segno fino ad oggi sono un bottino che ti fa andare orgoglioso della tua annata, ma non ti gratificheranno abbastanza se all’appello dovessero mancare quelli di questi novanta minuti. Forse non te lo perdoneresti mai, a patto che, sì insomma…il bene della squadra viene sempre prima.
C’è la chiama dell’arbitro.
Prima di uscire ci pensa il capitano a dire la sua, come sempre. Vi chiama leoni, vi chiama fratelli, vi spinge a dare il massimo anche oggi, soprattutto oggi, per quei maledettissimi novanta minuti e lo fa come solo lui sa fare, colpendovi dritto al cuore. Pensi: “Cazzo che fortuna ad avere un capitano così, se un giorno dovessi avere quella fascia al braccio, vorrei essere come lui…“. Vi abbracciate, eccolo qui l’abbraccio più bello del mondo. La convinzione di tutti è che dentro quell’abbraccio non vi succederà mai niente.
Si spalanca la porta ed è un attimo. C’è la foto di rito, ti distrai e sbirci in tribuna, quest’anno non l’avevi mai vista così gremita, la fortuna di giocarsi tutto in casa. Controlli che le scarpe siano allacciate strette, poi metti il primo piede sul prato verde, e cambia tutto. La paura sta lasciando il posto ad un’adrenalina incredibile. Il tragitto fino al centro del campo non ti è mai sembrato così lungo, quasi più lungo di quei novanta minuti lì davanti a te. In riga aspettate il via, saluti il pubblico, ti scambi il cinque con i compagni e ti prendi ancora qualche incoraggiamento. Papà è al solito posto, fiero.
Chiudi gli occhi per un attimo, li riapri e guardi il cielo, e al cielo affidi i tuoi sogni. Il sogno di un playoff o di un titolo, il tuo primo titolo, il sogno di un playout che allontana una retrocessione diretta, il sogno di una salvezza insperata, o di una posizione a metà classifica che sarà banale solo per gli altri, il sogno di un gol che aspetti da mesi o del riconoscimento di capocannoniere, il sogno di una manona al posto giusto al momento giusto, o dell’assist che cambia la partita; il sogno di non sbagliare gli undici e di azzeccare i cambi, di trovare le motivazioni giuste e di poter esultare con i tuoi ragazzi.
Il sogno di veder i sacrifici ripagati, la tua società nella posizione che merita, i volontari del bar stanchi di questi nove mesi ma contenti per aver dato una mano alla squadra del loro paese; il sogno di vedere quell’ingresso in campo con i bambini del settore giovanile e le tribune piene da togliere il fiato.
Il sogno di scrivere l’articolo perfetto, di non sbagliare le pagelle, di saper trovare le parole giuste per raccontare quella miriade di emozioni che in realtà ti è piombata addosso già al mattino appena sveglio, quando le farfalle nello stomaco avevano già fatto il girotondo e quando l’incipit del pezzo ti è venuto fuori mentre le mani tremavano dall’ansia…il sogno di un’intervista in cui gli occhi di chi sta dall’altra parte del microfono riescano ad imbattersi nei tuoi, a trovare appiglio proprio lì, e poi conforto, comprensione, gioia, e tutto ciò di cui abbiate vicendevolmente bisogno, forse rispetto, forse gratitudine, forse amore.
Qualunque sia il tuo sogno, riapri gli occhi, tiri un sospiro di sollievo, il frastuono dei cuori che battono all’unisono pare l’inno alla gioia.
Guardi il pallone.
Novanta minuti, gli ultimi novanta minuti.
Fischio d’inizio.
Sì, sono pronto.
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