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Da lavapiatti a top player: l’incredibile storia di Virgil Van Dijk

Virgil Van Dijk, semplicemente il top player della passata edizione di Champions League. Il più forte. Più di Ronaldo e Messi, più di chiunque altro. 
Eppure vederlo seduto di fianco a quei due mostri sacri un po’ effetto lo ha fatto, nonostante gli 84 milioni di euro versati dal Liverpool al Southampton nel dicembre 2017 non siano proprio due bruscolini ed una certa aura di valore intorno a Van Dijk l’hanno pur creata, appunto, tempo fa. “Sopravvalutato“, “Come può valere tutti quei soldi?“, “Pazzi“, “84 milioni per un difensore, da non credere“. Sì in tanti le hanno sputate queste sentenze, e per un secondo tralasciamo la storiella che conosciamo bene, quella dei “million dollari” del calcio, come direbbe un mio amico. Ragioniamo allora su un passato che non ha lasciato scampo ad un ragazzo che tutto questo se l’è costruito passo dopo passo, mattone dopo mattone, crescendo con quella fretta di chi si ritrova a cestinare la carta d’identità in cambio di sabati sera trascorsi a lavare i piatti in un ristorante. Perché mamma e fratello andavano aiutati, perché togliersi dalla maglia quel cognome che ricordava la figura paterna di un padre che, in realtà, non c’è mai stato, poteva solo dar sollievo all’orgoglio ma non valeva né un pagnotta né un affitto pagato.
E così se c’era da lavare i piatti per sopravvivere si lavavano, e così se c’era da stringere i denti tra un allenamento e l’altro, si stringevano. Perché la fatica Virgil Van Dijk l’ha guardata negli occhi se l’è cucita addosso. Un po’ come il coraggio. Lo stesso che lo ha aiutato a sopravvivere, grazie a sua madre, quando nel 2012 quei dolori all’addorme si fecero troppo insistenti per essere una banale influenza come qualche dottore disse. Un’operazione d’urgenza e due mesi di riabilitazione furono abbastanza per rimetterlo in piedi.
La gavetta, allora, potè tornare a scorrere, fin quando si accorse di lui il Southampton, fin quando il Liverpool decise di aiutarlo a diventare il più forte difensore d’Europa, fin quando in quella Montecarlo dell’altro ieri, tutta agghindata a festa, al richiamo di “Uefa men’s player of the year” i riflettori hanno intrapreso una strada diversa da quella cui erano abituati, e si sono consumati su 193 centimetri di eleganza e determinazione.
E pensare che se fosse stato per Jacques Lips proprietario di quel ristorante di Breda…”Lascia stare il calcio, non ti darà mai da vivere, qui guadagni soldi sicuri”…

La storia di ieri racconta di un lavapiatti di 16 anni che non mai mollato, di un ragazzo che a 18 anni non era neanche fra i professionisti. La storia di oggi non la racconta nessuno, la scrive un uomo che continua ad arrivare dalle retrovie, a percorrere “la strada più lunga”, ma solo per prendere la rincorsa.

Dio benedica i testardi.

Photo credit exitonoticias.com

La solitudine dei numeri…unici: io sto con Loris Karius

Vorrei capire quanti di voi nella vita si sono sentiti molto più simili e Cristiano Ronaldo piuttosto che a Loris Karius, perchè in tutta onestà quello che sto leggendo sul web e sui social mi sta lasciando attonita.
La supponenza con cui si chiede ad un 24 enne di pensare più a lavorare piuttosto che ai tatuaggi da dove arriva esattamente? Dal tubetto di gel che usate ogni sabato sera prima di andare a brontolare in disco? Dalle magliette firmate e per le quali spendete mezzo stipendio? Dai 100 € che pavoneggiate ad un classico aperitivo con gli amici perché o Terrazza Martini o niente, o mi ubriaco o niente? No, fatemi capire. Perché io ieri sera sono stata la prima a dire “Il bambino di 10 anni che alleno para meglio”, ma le frasi fatte, i commenti a caldo, fanno anche parte del gioco, così come pensare che forse Loris Karius non fosse all’altezza di questi novanta minuti, ma permettersi di descrivere l’esattezza dei gesti tecnici manco il vostro nome fosse Attack ed il cognome Buffon (o chiunque preferiate voi) e ancor di più permettervi di deridere, di giudicare l’uomo, è una cosa che non succedeva nemmeno nella storia antica. Poveri cavernicoli, con tutto il rispetto per i cavernicoli sia chiaro, che vivevano in un’epoca diversa, surreale, e che non hanno avuto le possibilità. Voi, invece, vivete tremila miliardi di situazioni diverse al giorno, avete sulle spalle storie di vita vissuta che magari fanno impallidire pure la mia, eppure non avete il coraggio di andare oltre, di mettervi nei panni altrui, di comprendere. Non so se provo più disgusto nel leggere queste cose o nell’abbraccio mancato di una squadra impegnata a piangere, certo, a disperarsi, ma evidentemente non abbastanza matura ed umana da rendersi conto che quel numero che in finale ci è arrivato con voi, con gli stessi identici meriti, forse una pacca sulla spalla l’avrebbe meritata proprio da quegli “amici” che per un anno intero si sono vissuti dentro e fuori dallo spogliatoio. Ecco, più della rovesciata di Bale, è questo ciò che avremmo dovuto vedere in eurovisione mondiale. E non scherzo eh, perché la meraviglia del calcio passa da qui o forse è tutto qui. Mi auguro fortemente che dietro le quinte qualcosa di così bello sia successo.
Sii orgoglioso Loris Karius del tuo percorso, dei tuoi errori, della forza che immediatamente hai trovato rialzandoti da quel prato verde, orgoglioso per le mani giunte con cui ti sei presentato sotto la tua curva guardandoli negli occhi quei tifosi che davvero “You’ll Never Walk Alone”. Adesso farà male, malissimo, e sarà terribilmente indimenticabile, ma se nella tua vita quando ti sei chiesto quale fosse la tua strada hai visto la luce solo su questa, se hai combattuto come un eroe per conquistarla, allora non arrenderti, passo dopo passo arriverai dove hai sempre sognato arrivare e non importa che tu faccia il calciatore o il panettiere, la scelta del tuo destino è solo e solamente tua. E non aver paura di ripresentarti da solo sotto quella curva, sai, tutto può succedere, questo è il calcio, questa è la vita, ma tu Loris Karius con il numero uno sulla schiena, cammina a testa alta perché di finti santi ed eroi ne è pieno il mondo, ma gli Uomini che sanno uscire intatti e più forti dalle avversità sono sempre troppo pochi.
…la chiamano “la solitudine dei numeri uno”, io preferisco chiamarla “la solitudine dei numeri unici”.